La strategia degli affari

di 20 Ottobre 2025

Sistemata, a suo dire, la questione mediorientale, Trump rivolge l’attenzione all’altro intrattabile problema, quello ucraino.

Accettando un incontro Putin senza che ne sia stata fissata l’agenda, per di più nel paese dell’Unione più sensibile alle considerazioni del Cremlino, egli si piega ancora una volta alla consolidata strategia di Mosca di seminare la confusione nel campo avverso.

È stato Putin a prendere l’iniziativa, senza rivelarne lo scopo. “Restano questioni da risolvere’, ha detto enigmaticamente il suo portavoce. Nell’immediato, ha messo i bastoni fra le ruote al rifornimento all’Ucraina di strumenti bellici sofisticati americani; mentre l’ospitalità dell’ungherese servirà a seminare la confusione fra gli europei, piuttosto che a riavvicinare le posizioni dei due megalomani. Immemori del fatto che proprio a Budapest, nel 1994, sotto l’egida di Clinton, la Russia di Eltsin garantì all’Ucraina il rispetto della sua indipendenza e integrità territoriale. 

Una guerra ibrida, di logoramento ma pur sempre sfacciatamente aperta, è quella che il Cremlino rivolge al contempo all’Ucraina e all’occidente euro-atlantico. Alla domanda se ritenesse che l’amministrazione americana capisca la posta in gioco, Zelenski ha risposto disinvoltamente: “ci stiamo lavorando…”. Eppure le intenzioni di Mosca vengono manifestate apertamente, come gesto di sfida. 

 “Tutti devono capire –dice l’ideologo di Putin Sergei Karaganov – che noi non stiamo combattendo contro l’Ucraina; la nostra è una guerra contro l’Europa, contro l’Europa di Napoleone e Hitler. Le vostre élite hanno perso ogni forma di credibilità e di autorità, e per questo cercano una guerra contro di noi”. Un mondo al contrario, direbbe Vannacci, già addetto militare a Mosca, che di queste cose se ne intende. 

Dobbiamo quindi renderci conto che è del confronto fra l’ordine democratico e quello degli istinti primordiali che ancora una volta si tratta. Non di pace ‘giusta e duratura’ bensì, come in Palestina, di stallo lungo la linea del fronte. Il che assicurerebbe a Mosca un altro anello in quella catena di ‘crisi congelate’ che utilizza a mo’ di cintura di sicurezza.

Si deve supporre che, dal canto suo il ‘supremo pacificatore’ continui a far leva sugli incentivi economici. Sui vantaggi pratici, cioè, che Mosca potrebbe ricavare da un rapporto privilegiato con Washington. Non sull’ormai improponibile ristabilimento dell’antico rapporto strategico bipolare bensì, come in Palestina, sull’interesse personale dell’uomo d’affari insediatosi alla Casa Bianca. 

L’Ucraina è quindi diventata la nostra cartina da sole, la questione esistenziale per l’intero continente. Eppure l’Europa, trascurata dall’America, rimane in mezzo al guado, disorientata. Alle prese, un po’ dappertutto, con instabilità interne dovute al disfacimento del sistema dei partiti. Con la polarizzazione degli schieramenti politici e il venir meno di quel ‘centro’ nel quale raccogliere il consenso nazionale rispetto ai sovrastanti temi internazionali. (“Il centro non può reggere”, lamentava W.B.Yeats nell’immediato primo dopoguerra, prevedendone le conseguenze).

Fattori accessori che impediscono il consolidarsi di una diga continentale alla rinnovata sfida di una Russia che fatica a tenere il passo con la Storia, e pertanto continua ad intralciarne il cammino. 

L’unico modo per ‘distrarre’ Putin, di farlo deflettere dalla sua ossessione ucraina, parrebbe non poter essere che quello di coinvolgerlo nella gestione di altre crisi mondiali. Ricondurlo cioè, con il concorso della Turchia e della Cina, allo svolgimento del ruolo di corresponsabile della gestione di problemi mondiali assegnato alla Russia nella ‘stanza dei bottoni’ delle Nazioni Unite.

Per il momento, c’è da prevedere che a Budapest un’inutile sceneggiata, pari a quella di Anchorage, si ripeterà.

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