Su una scena mediorientale andata fuori controllo, Israele ha ora chiamato in causa anche l’Iran.
Abbandonato a sé stesso, con l’accondiscendenza se non l’approvazione di Washington, Netanyahu ha deciso di far da sé anche nei confronti del residuo suo antagonista.
La cui dichiarata contrarietà all’esistenza di Israele, con il suo sostegno ad Hamas, Hezbollah e houti invisi agli stessi paesi arabi, risponde allo scopo di affermarsi come protagonista negli equilibri mediorientali dai quali, non araba e sciita, si ritiene estromessa. La stessa sua ambizione di dotarsi di un arsenale nucleare rispondeva originariamente allo scopo di proporsi come garante della sicurezza di una regione che il fallimento delle ‘primavere arabe’ aveva ulteriormente fragilizzato.
Ne emerge la necessità di mediazioni esterne, finora americane ed europee, più volte tentate ma miseramente fallite. Nemmeno l’autoproclamatosi pacificatore Trump pare disporre oggi delle ‘carte’ la cui mancanza ha imputato persino all’ucraino Zelenski. Stracciato, nella sua prima incarnazione, il ‘piano d’azione’ del 2015 sul nucleare iraniano, fidando negli ‘Accordi di Abramo’ senza pretenderne da Israele alcun corrispettivo, egli si è ora distanziato da ogni diretto coinvolgimento.
Né l’Europa può compensarne l’assenza. Tanto meno i ‘condomini’ arabi, presumibilmente soddisfatti dall’aver lasciato ad Israele il compito di affrontare il comune antagonista regionale.
L’iniziativa di Netanyahu, presa subito dopo che l’AIEA aveva espresso le sue preoccupazioni per le inadempienze iraniane, potrebbe pertanto servire per il momento a rivelare i propositi altrui. Costituire cioè la premessa per ritessere l’intero ordito di quel tessuto regionale. Con l’auspicabile concorso russo (che la presa di contatto fra Trump e Putin potrebbe aver sollecitato).
Un riordino nel quale l’Iran andrà recuperato. Tanto più che, se ipotetica rimane per il momento la caduta del regime degli Ayatollah, Teheran si trova a dover ridimensionare le sue ambizioni.
Una situazione che dovrebbe indurre gli altri interlocutori, esterni al Medioriente, a prendere più decisamente posizione, se non necessariamente a schierarsi. Lo hanno fatto inequivocabilmente Londra e Parigi. Come al solito interdetta, l’Italia rimane invece a metà strada.
Nell’ennesima constatazione che nel Medioriente come in Ucraina, la dissuasione né la persuasione funzionano più; che la questione palestinese richiede l’attivazione di ben altri ingranaggi, nazionali e internazionali. La successione dei Vertici G7, NATO e Consiglio europeo dovrà fornire qualche indicazione della possibilità di ricomporre il sistema internazionale.