“La pace non è statica –è stato detto- mette in movimento, coinvolge, riguarda tutti”. È questione di responsabilità da assumere, piuttosto che di ‘sacro egoismo’, non di imputazioni da scambiarsi vicendevolmente.
Una rassegnata indifferenza si sta invece affermando al cospetto dei confitti che lambiscono i nostri confini. Quella dei ‘sonnambuli’ dopo Sarajevo, dell’Anschluss e di Monaco rispetto a Hitler, che ha condotto ai due devastanti conflitti mondiali.
Un’assuefazione, un fatalistico torpore, che obnubilano le menti e le coscienze. Una condizione che l’occasionale manifestazione di piazza (peraltro sul groviglio mediorientale, non sull’Ucraina) non può mascherare.
Nonostante la loro scandalosa tragicità, l’Ucraina non ci riguarda, del Medioriente siamo spettatori impotenti. Non riusciamo nemmeno ad esprimere una solidarietà di intenti nell’ambito dell’Unione europea. Affidandoci ai ‘volenterosi’, che accusiamo di reconditi intenti nazionali, mentre tardiamo a schierarsi.
Fatichiamo a renderci conto che la Guerra fredda è ripresa: ne sono cambiate le componenti, non l’atteggiamento di Mosca, ostinatamente refrattaria ad ogni compromesso. Si tratta, dice il Cremlino, di eliminare le ‘cause profonde’ del conflitto, ribadite negli ultimatum del ‘memorandum’ presentato all’ennesimo inconcludente incontro di Istanbul (al cospetto di rappresentanti diplomatici di Francia, Germania, Regno Unito e Italia).
In Ucraina come in Medioriente e altrove, l’impegno negoziale non può essere lasciato alle parti direttamente interessate, dovendo invece essere affrontato congiuntamente dall’insieme della comunità internazionale. Che si va disgregando. Si diffonde persino la convinzione che, per l’irruzione dei molteplici nuovi fattori internazionali, il diritto internazionale è caduto in disuso. È pertanto del sistema internazionale complessivo che si tratta, della sua ricomposizione.
Una sfida che, nelle attuali condizioni internazionali, la sola Unione europea, per la sua predisposizione genetica, dovrebbe raccogliere con maggior decisione, invece di rassegnarsi all’ognun-per-sé, sospinta da un populismo consistente nell’alzarei ponti levatoio nazionali.
Il binomio franco-tedesco, il ‘triangolo di Weimar’ con l’aggiunta della Polonia, il quartetto dei volenterosi che include anche il Regno Unito, stentano a produrre la necessaria trazione europea. Una situazione che il defilarsi dell’Italia aggrava.
La visita a Roma del Presidente Macron, compiuta di sua iniziativa per dissipare le tante incomprensioni accumulatesi fra il frenetico attivismo francese e le persistenti ambiguità italiche, si è conclusa con l’ambigua affermazione di una “cooperazione fra pari” (sic, fra due Stati fondatori dell’Unione!). Rinviandone la definizione alle calende dell’anno prossimo, sulla base del Trattato del Quirinale concluso quattro anni fa, ad immagine e somiglianza di quello franco-tedesco dell’Eliseo, ma rimasto lettera morta.
Una rappacificazione di facciata in extremis, rispetto alle imminenti riunioni del G7, dell’Alleanza atlantica e, buon ultima, del Consiglio europeo. Indispensabile per innescare, anche nei confronti del nostro alleato transatlantico, l’auspicabile dinamismo propositivo dell’Unione.
Sia pure in quella distinzione fra il pragmatismo di breve termine e l’utopia degli scopi ulteriori, nel quale da sempre si muove la diplomazia