Unilateralismo autolesionista 

di 9 Aprile 2025

Quod vult Jupiter perdere, dementat prius. L’auto-proclamatosi ‘grande pacificatore’ è diventato guerrafondaio; in termini economici, più devastanti su scala mondiale di quelli militari. Grottescamentespettacolare, aggredisce oltre al resto del mondo, la sua stessa nazione.

Nel momento in cui, in un mondo irrimediabilmente interconnesso, anche altri protagonisti degli affari mondiali, da Putin, a Erdogan, a Netanyahu (a Xi?), sembrano aver perso ogni cognizione delle impellenti esigenze di coabitazione. Nella contrapposizione di comportamenti unilaterali che finiscono col risultare autolesionistici.

Un fenomeno generalizzato, imprevisto, incontrollabile, come un diluvio, un terremoto, del quale non vi sono spiegazioni razionali né quindi protezioni o immediati rimedi. Un nazionalismo esasperato, nel momento di transizione in cui sarebbe essenziale ritrovare un qualche comune denominatore. Un rigurgito demagogico che, semplificando questioni complesse, radicalizza il dibattito democratico, nazionale e conseguentemente internazionale.

Reazioni impulsive, essenzialmente agorafobiche, stanno prendendo il sopravvento, nell’apparente intento di delimitare sfere d’influenza esclusive. Finendo col coinvolgere anche una nazione basata non su un’etnia o una religione, bensì sui principi universali dell’illuminismo. Che, affaticata dalla sovraesposizione durata l’intero secolo scorso, va improvvisamente rattrappendosi. 

La nuova amministrazione ha deciso di erigere muri contro le “masse infreddolite, assetate di libertà” che la Statua della Libertà ha accolto per centocinquant’anni, nonché contro il libero commercio, che Kant, poi Constant, Angell ritenevano l’antidoto alle contrapposizioni conflittuali, del quale l’America si è fatta paladina nel secolo scorso, intervenendo per ben due volte nell’intento di salvare l’Europa da sé stessa. 

Il Segretario di Stato Marco Rubio ha persino dichiarato senza mezzi termini che “l’ordine globale del dopoguerra [di cui l’America è stata artefice!] non è soltanto obsoleto: è ormai un’arma che viene utilizzata contro di noi”. Non più quindi nazione esemplare, ma Stato nazionalista al pari, forse più, degli altri.

In un ostentato delirio, Trump non solo rinnega la Storia nazionale, da Jefferson a Franklin Roosevelt, passando per Teddy Roosevelt e Wilson, ma (risparmiando, oltre alla Russia, il Regno Unito e l’Australia) attacca frontalmente persino Stati, dal Canada alla Danimarca, all’intera Unione, al Giappone, ai quali è legato da alleanze politiche e militari. 

L’egemonia imperiale che le viene spesso imputata è servita a produrre non soltanto effetti globalmente stabilizzanti, ma anche le emancipazioni nazionali della decolonizzazione e diffusi benefici economici e sociali, per la stessa forza di attrazione del suo ‘soft power’. Effetti dei quali si è avvalsa anche la Cina, ammessa nel 2000 nell’Organizzazione Mondiale del Commercio; le cui regole ha poi disatteso.

 ‘Presente alla creazione’ dell’ordinamento internazionale liberale, è pertanto con una rete di alleanze che l’America si è resa ‘Grande’, globalmente influente. Esautorando però il Vecchio continente dal ruolo di ‘fare la Storia’, svolto per mezzo millennio. Se ancora oggi l’Europa non può far a meno dell’America, se ne dovrebbe dedurre che l’America continua ad aver bisogno dell’Europa.

John Steinbeck la descriveva come “complicata, paradossale, ostinata, timida, crudele, presuntuosa”. Dalla nostra parte dell’Atlantico, viene considerata ingenua e arrogante, mai abbastanza prevedibile, comunque insostituibile. Suscitando il fastidio, l’istinto ‘parricida’ si dovrebbe dire, di quanti si sono avvalsi della sua prolungata protezione.

Abbiamo peraltro appreso che la ricomposizione dell’assetto mondiale non può più dipendere da un capofila, ma soltanto dalla riappropriazione e la convergenza delle specifiche responsabilità di ognuno. Specie nel momento in cui l’Ucraina, il Medioriente ed altri sanguinosi conflitti devastano il mondo in cui viviamo. 

“È impossibile mettere dell’ordine nell’elementare” diceva Beckett, aspettando Godot. Precisando che “sono necessari una pestilenza, Lisbona [il terremoto del 1755] e una grande macelleria religiosa, perché gli esseri umani sognino di amarsi, di lasciare in pace il giardiniere accanto, di essere semplicissimi”. Alla nostra coscienza dovrebbe risuonare ancora l’esortazione di Isaia Berlin: “possiamo fare soltanto quello che possiamo fare, ma quello bisogna farlo”. Il ‘grande vecchio’ Walesa, che di queste cose se ne intende, concorda: “opporsi vuol dire fare quel che sappiamo e rafforzare il nostro essere”. 

L’Europa deve infatti rendersi conto di continuare a rappresentare l’estremo ridotto dell’ordinamento liberale, collaborativo invece che antagonistico, multilaterale non ‘multi-polare’, del quale rimane la realizzazione compiuta. Il nostro Prodi afferma appropriatamente che “soltanto noi europei abbiamo il senso, difficile ma forte, della democrazia”.

In Italia, invece, manifestazioni ‘oceaniche’, a destra e a sinistra, radunano ancora folle pacifiste ad oltranza, radicalmente neutraliste, ignare, indifferenti; che dichiarano ‘guerrafondai’ i nostri alleati francesi e inglesi, sventolando bandiere arcobaleno, con l’aggiunta di vessilli palestinesi (non ucraini!) e stendardi che, invocando la pace, significano piuttosto “Lasciatemi in pace!”.

Proiettando l’immagine di una nazione adolescenziale, immatura, astratta dal mondo reale, e pertanto irrilevante.

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