La guerra in Ucraina ha compiuto tre anni. Nella generale rassegnazione, con un crescente fastidio e disorientamento. Che l’atteggiamento di Trump ha acuito ad ulteriore scapito della coscienza dei valori occidentali.
Non ci siamo resi conto di quanto sia diventata una guerra di logoramento, che non si presta pertanto alla soluzione giusta e duratura che andiamo invocando. Di quanto la ferita inferta alla stabilità del nostro continente sarà duratura: quod erat in votis di Mosca.
L’originaria blitzkrieg di Putin si è col tempo trasfigurata in aperto confronto con il resto del mondo, contro quel che il Cremlino definisce l‘Occidente ‘collettivo’, contro l’intero ordinamento internazionale. Un rivolgimento delle speranze suscitate al momento della caduta del Muro, che ha già inciso sulla coesione del ‘mondo libero’.
Il disfacimento delle regole di convivenza civile ha coinvolto la stessa capacità di comprensione e di reazione delle democrazie aperte. Sulle cui opinioni pubbliche Mosca esercita già un evidente potere di persuasione, se non di intimidazione. Non più di riassorbimento della Russia nell’ordinamento continentale e internazionale si va discutendo, ma di un accomodamento purchessia (persino in termini di accesso alle ‘terre rare’!).
Alle Nazioni Unite, oltre alle due Risoluzioni approvate nell’astensione di una metà dell’Assemblea Generale, in Consiglio di Sicurezza l’America si è schierata con la Russia. Alla Casa Bianca, Macron e Starmer hanno difeso a fatica le ragioni dell’Europa nell’Alleanza atlantica, ponendo l’accento soprattutto sulle garanzie di sicurezza da fornire a sostegno di un ancor ipotetico cessate il fuoco. Che dovrebbe richiedere il ritorno dell’America in difesa dell’Europa.
A meno che si stia trattando del ristabilimento delle sfere di influenzadisposte a Yalta. Paradossale è l’apparente intenzione di Trump di ottenere da Putin la consacrazione del suo status di Superpotenza, in condominio con Mosca. In un rapporto transattivo, dai connotati strategici di ordine esclusivamente economico.
Fra Washington, Bruxelles e Mosca, il momento della verità non può più essere eluso. Se all’Unione europea nel suo insieme spetterebbe assestare un qualche triangolo equilatero continentale, non si può peraltro pretendere che si affermi come potenza militare. La ripartizione delle spese fra alleati (burdensharing), pretesa a gran voce da Trump, non può consistere solamente nell’aumento dei bilanci militari, poiché dovrebbe presupporre la definizione di un’agenda condivisa, nella ripartizione dei rispettivi compiti.
Ne va non soltanto della residua credibilità dell’Alleanza atlantica, dello stesso automatismo del suo articolo 5, ma della complessiva strategia politica occidentale. Comprendente l’atteggiamento da assumere anche rispetto alle situazioni negli altri ‘paesi vicini’ alla Russia: in Georgia, Armenia, Moldova (e in Medioriente, in Africa). Con il venir meno dell’eccezionalismo della ‘città sulla collina’ che, nel Seicento, i ‘padri pellegrini’ fondarono sull’altra sponda dell’oceano, si rivelerà problematico persino il “Make America Great Again”.
Un pragmatico modus vivendi non può quindi bastare a nessuna delle parti in causa. Né appare praticabile un equilibrio fra poteri hard e soft, per assicurare il contenimento delle intimidazioni militari di Mosca, e della cacofonia di ‘fatti alternativi’ provenienti persino da Washington. Nella persistente contraddittorietà delle dichiarazioni in provenienza tanto dal Cremlino quanto dalla Casa Bianca.
L’esito delle elezioni tedesche, le prerogative presidenziali francesi, la determinazione dei polacchi, assieme all’impegno britannico, fanno ben sperare per quel nucleo dell’Europa della sicurezza e della difesa che non può essere affidato all’insieme dei Ventisette. Un quartetto al quale l’Italia dovrà necessariamente rapportarsi, se non vuole figurare come l’asino di Buridano invece che come l’anello di collegamento transatlantico che si illude di diventare.
Paradossale è che il nostro Primo Ministro si chieda ‘a che titolo Macron si è recato a Washington’, quando lei per prima è andata, poco utilmente, a Mar-a-lago e poi all’inaugurazione di Trump.