Con un interlocutore, quello americano, andato palesemente (deliberatamente?) fuori di senno, l’Europa deve decidersi a cavarsela senza la stampella d’oltreatlantico. Non solo in termini commercial ma anche forse soprattutto rispetto ai problemi strategici che la riguardano più da vicino.
Se in Ucraina, in Medioriente, l’Europa resta necessariamente tributaria delle improvvisazioni americane, le altre crisi trascurate, in prolungata sospensione, nei Balcani, in Libia, lo stesso Iran, sono di più diretto, specifico interesse europeo.
Non è soltanto il recidivo occupante della Casa Bianca a sollecitare l’Europa a darsi da fare. Chiamata in causa è la stessa ragion d’essere, eminentemente politica, del suo codice genetico. Una sfida propriamente esistenziale, che risponde alla convinzione di Monnet che “l’Europa sarà forgiata nelle crisi, e consisterà nella somma delle soluzioni adottate per farvi fronte”.
Nell’immediato dopoguerra, fu soprattutto l’Italia, ispirata da Spinelli, Einaudi, De Gasperi, Sforza, a premurarsi non soltanto di reintegrare la comunità delle nazioni democratiche, ma di invocarne la federazione. Subito inclusa nel Piano Marshall e nella NATO, fondatrice della CECA, si fece convinta sostenitrice della Comunità europea di difesa (CED). Il fallimento di quest’ultima, per l’indisponibilità di Londra ad affiancarsi alla Francia nel costituirne il nucleo, fu l’Italia (con il Belgio) a farsi promotrice dei negoziati di Messina che condussero a Trattati di Roma. Fu poi ancora l’Italia con la Germania a dare, con l’Atto Unico, ulteriore impulso al processo d’integrazione.
E’ poi successo che Francia e Germania abbiano maggiormente beneficiato delle politiche comuni (in particolare di quella agricola), assicurando a lungo la stessa propulsione politica dell’impresa continentale. La Francia, nella sua qualità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ne ha fatto il piedistallo della propria ‘grandeur’; e la Germania, divisa, la sua stampella.
Allargata finalmente agli Stati liberatisi dalla dominazione russa, la crisi in Ucraina ha stimolato la Germania e associato la Polonia ad un nuovo terzetto di testa. Mentre il Regno Unito, rimasto a lungo con un piede dentro e uno fuori, si rende ormai conto dei danni dell’amputazione operata con la Brexit.
Assestamenti tutti che hanno finito col relegare l’Italia alla periferia della Politica estera e di sicurezza comune. Che, necessariamente intergovernativa, non è paralizzata, come si dice, dalla regola dell’unanimità, ma lascia invece libertà di azione ai più intraprendenti. A Parigi e Berlino vanno infatti riconosciuti i ripetuti tentativi di recuperare all’Europa una Russia che ha invece deciso di voltarle le spalle.
Il Consiglio europeo informale (informale!) appena riunitosi si è limitato a ribadire il comune atteggiamento nei confronti del Cremlino. Né si può ritenere che l’Europa possa imporre la propria presenza nel confronto in attofra le auto-dichiaratesi superpotenze.
Che Putin rifiuti ostinatamente di riconoscere l’Unione non mortifica di per sé l’Europa, denotando semmai quanto la Russia se ne autoescluda. L’Unione deve piuttosto contare sulla forza di gravità in cui sola può consistere la sua funzione propulsiva. Più che dell’affermazione dei suoi valori fondanti, si tratta comunque ormai di tutelare i propri interessi concreti.
Per non rischiare l’irrilevanza e, con essa, la subordinazione alle decisioni altrui, dovrebbe proporsi come punto di aggregazione degli Stati che si ritengano maggiormente interessati e disponibili. Come già avviene, a Ventisette, per l’Euro e per Schengen. Come accade al difuori del contesto istituzionale, con la Comunità Politica Europea’ fra la quarantina di Stati continentali che nell’Unione si riconoscono.
Contrariamente a chi dice che l’Europa non c’è più, dobbiamo semmai renderci conto che non c’è ancora. Non l’Europa spazio economico e sociale, bensì l’Europa politica che le mutate circostanze sollecitano. Che non può né deve agire come un blocco a ventisette, ma invece articolarsi, scomponendosi a seconda delle esigenze nelle ‘cooperazioni differenziate’ che i Trattati consentono. Perché la sua pluralità, la ‘unità nella diversità’ che la definisce non si traduca in indifferenza, inazione.
Da noi, l’Europa sembra aver perso la funzione di ‘fattore federatore esterno’ delle origini. Il solo Presidente della Repubblica dice ormai le cose come stanno. (Sottolineando in particolare la spesso denigrata nostra comunità di sentimenti ed interessi con la Francia).