Ci risiamo. Al cospetto di una nazione eterogenea, l’unica a essersi costituita su base non etnica bensì ideale, fondata sulla raccolta del consenso più che sulle superiori imposizioni, terreo, rancoroso, il redivivo Presidente americano ha orgogliosamente annunciato l’avvento di una “età dell’oro”.
Un discorso inaugurale teatrale, ma algido, vendicativo, da comandante-in-capo onnipotente nell’avocare a sé poteri esecutivi emergenziali contro “minacce e invasioni”, e nel proiettarsi all’esterno da Panama a Marte. “Reclamare, restaurare, riequilibrare”, il motto del redentore. Nulla però su Russia, Ucraina, Cina, Medioriente; né Europa.
Affidandosi all’ostentazione della forza piuttosto che alla forza di attrazione di quella che dal Settecento in poi si è presentata come faro dell’umanità. Lanciando subito, sul piano interno, una serie di decreti presidenziali destinati a smantellare l’impianto nazionale. Accomunandolo, su quello internazionale, agli autocrati, cinese e russo, ai quali intende contrapporsi in singolar tenzone.
Gli atteggiamenti istrionici del recidivo inquilino della Casa Bianca aggravano però l’imprevedibilità del suo comportamento, impedendoci di calcolarne le ripercussioni su un sistema internazionale gravemente lesionato. Margaret MacMillan, storica del Trattati di Versailles, dubita che “un ordinamento travagliato possa sopravvivere ad un leader che sovverte le norme non scritte e le tacite presunzioni”. Sappiamo però che si propone di ignorare i meccanismi multilaterali, nel riabilitare gli antichi rapporti di potenza, bilaterali, che la globalizzazione dovrebbe aver squalificato.
Ci si potrebbe consolare con la ‘teoria del folle’, le cui farneticazioni dovrebbero somministrare una choc-terapia, scuotere le coscienze degli alleati e le certezze degli avversari. Dubbio però rimane che le sue provocazioni verbali possano rivelarsi taumaturgiche, incidere cioè sul comportamento delle altre ‘superpotenze’.Il suo ‘pragmatismo amorale’ rischia di non reggere allo ‘stress test’, di rivelarsi persino controproducente.
Il suo ritorno rappresenta comunque l’estrema manifestazione del ritrarsi della prolungata ‘pax americana’. Annunciato da Obama nel suo discorso all’Università del Cairo, confermato da Biden con il ritiro dall’Afghanistan, era però stato accompagnato dalla chiamata a raccolta dei partner occidentali e dal ricorso alle istituzioni internazionali. Un’impostazione che il nuovo ‘imperatore’ rinnega, nell’evocare un’America unilateralista, introversa.
Sul piano interno, il suo comportamento appare rivolto prioritariamente a proteggerlo dalle vicissitudini economiche e penali che si trovava a dover affrontare (non diversamente da un precedente fenomeno italiano…). Il suo neo(iper)liberalismo non pare comunque poter riconciliare una nazione gravemente divisa. Mentre la tripartizione dei poteri, fra controlli e contrappesi, che ha ispirato i Padri Fondatori rischia di essere sconvolta.
Ma, in un mondo interconnesso come non mai, le stesse iniziative di politica interna dovranno affrontare la ‘prova del nove’ della politica estera. Priva di una strategia d’assieme, l‘arte di fare affari, contrattuale, sarà sottoposta al vaglio dei rapporti internazionali, al punto che un ritorno alla geo-politica rischia di rivelarsi destabilizzante nei due sensi.
In un mondo radicalmente trasformato, l’America rischia di perdere la duplice forza di dissuasione e di aggregazione che ha esercitato in passato. La sbandierata diplomazia ‘personale’, alzando la posta in gioco, comprime gli spazi necessari ad ogni possibile negoziato. Inadeguate a compensarne gli effetti appaiono società cosiddette ‘libere’, che la prolungata preponderanza americana ha reso le afasiche.
L’Europa, unico attore internazionale intrinsecamente multilateralista, fatica a di raccogliere la sfida implicitamente rivoltagli. Che dovrebbe consistere se non altro nel presentarsi come punto di riferimento esterno al confronto fra i giganti politici, economici e militari. Come ‘poliziotto buono’ rispetto all’inflessibile ‘poliziotto’ americano.
Ai commedianti di un carro di Tespi, in una versione americana dell’italica commedia dell’arte, si è premurata di associarsi la nostra Primo Ministro. Nel volersi accreditarsi, soprattutto in Italia, certo non in Europa, come anello di congiunzione transatlantico. Antico vizio nazionale! ricordiamoci di Berlusconi, che si fregiava dell’amicizia con Putin e Gheddafi. Con i risultati che si sono visti…
La convinzione di Carlyle che sono gli individui a fare la Storia, sia pure con il favore delle condizioni ambientali, è nuovamente messa alla prova. Dalle gesta di Alessandro a Cesare, da Napoleone a Hitler, a Trump?