Diritti umani

di 7 Gennaio 2025

L’anno inizia con un’occasione di meditazione.

Alla veneranda età di cent’anni, nei quali Kissinger l’aveva preceduto, se ne andato anche Jimmy Carter, un Presidente dimenticato, archiviato come incolore, incastonato com’è stato, dopo la breve parentesi di Ford, tra Nixon e Reagan, che la Storia ha considerato di ben altra, sia pur diversa, caratura.

Eppure, in un periodo particolarmente traumatico per l’America, per il Vietnam e il Watergate, l’amministrazione Carter costituì la necessaria fase di stasi, per rigenerare e definire diversamente la ‘pax americana’, fondata non più sulla forza militare, bensì sulla riaffermazione dei principi fondanti di quella nazione. Soprattutto sul rispetto dei diritti umani, che Carter decretò quali criterio di riferimento per gli stessi rapporti internazionali.

Un’esortazione, più che una direttiva di politica estera, corrispondente alle convinzioni di un Democratico diestrazione evangelica, rivolta a definire diversamente l’impostazione della ‘pax americana’, Che fu però presto messa alla prova dalle improvvisa comparsa di nuove circostanze internazionali, con l’invasione russa dell’Afghanistan e l’avvento di Khomeini in Iran.

Il promettente immediato risultato della sua presidenza, quegli accordi di Camp David fra Sadat e Begin che condussero alla normalizzazione dei rapporti di Egitto e Giordania con Israele, fu infatti presto compromesso dalla presa di ostaggi all’Ambasciata americana a Teheran. La mancata rielezione di un presidente considerato ingenuamente idealista, inadeguato a sostenere gli interessi americani nel mondo, aprì la strada al Repubblicano Reagan, più appariscente e assertivo. 

Carter non si dette però per vinto, continuando caparbiamente a prodigarsi nella promozione dei diritti umani. Un riconoscimento tardivo gli venne tributato vent’anni dopo, nel 2002, con il conferimento del Premio Nobel per la pace, “per l’instancabile impegno a favore di pacifiche soluzioni a conflitti internazionali, e la promozione delle democrazie e dei diritti umani”.

Un impegno che la Carta delle Nazioni Unite contiene esplicitamente, che la Dichiarazione Universale del 1948 conferma, che le Convenzioni di Ginevra sui diritti economici e sociali precisano ulteriormente, ma che viene oggi osteggiato da chi vi oppone un irriducibile ‘conflitto di civiltà’.

Come se la libertà dalla paura e dal bisogno non fossero diritti fondamentali, comuni all’intera umanità (diversamente da quelli di espressione, semmai sovralimentati, o di credo, affievoliti). Salvo a voler delegittimare l’intero diritto internazionale, in un ritorna ad una ‘ragion di Stato’ trasformata in ‘homo homini lupus’, del quale già vediamo le avvisaglie.

L’evoluzione dei rapporti internazionali ha dimostrato la funzione discriminante di tale metro di giudizio. Non in termini di una forzosa ‘esportazione della democrazia’, etichetta che continua ad essere imposta alle ‘operazioni di pace’ in situazioni di palese collasso statuale. Bensì nell’emersione della ‘responsabilità di proteggere’ che le Nazioni Unite hanno finito con l’attribuire sugli Stati nei confronti delle loro popolazioni, nonché della stabilità della regione circostante.

Per quanto diverse, l’attuale situazione in Ucraina e a Gaza, la sollevazione popolare in Siria, la presa in ostaggio della giornalista Cecilia Sala, dimostrano, a comune denominatore, la validità dell’eredità lasciataci da Carter.

Un americano d’altri tempi, o un indicazione per il futuro che ci attende?

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