Mentre Trump si prepara a entrare in scena, Putin ritiene di doversi esporre maggiormente. La sua esibizione per oltre quattro ore non ha però offerto alcuno spunto di novità, rivolta com’era ancora e sempre alla propria opinione pubblica piuttosto che alla platea internazionale.
Si rende apparentemente conto che, dopo tre anni, bisogna metter fine a questa ennesima “inutile strage”, ma non sa come estrarsene. Salvo cambiare discorso, intestandosi persino la metamorfosi dei ribelli siriani.
La sponda offertagli da Trump non potrà pertanto rivelarsi diversa da quella che altri, compresi Turchia e Cina, gli hanno sinora messo a disposizione. L’isolamento in cui si è rinchiuso non gli consente per il momento altre soluzioni che un cessate il fuoco lungo la linea del fronte. Lasciando impregiudicato ogni futuro sviluppo.
Evidente è che Putin non sa più cosa dire, pretendendo nuove elezioni in Ucraina, insistendo che i territori occupati non potranno far parte del negoziato, sorvolando sul come e chi potrebbe garantire l’accordo eventualmente raggiunto. L’attesa interlocuzione con Trump non pare quindi potersi rivelare decisiva. Specie in assenza di una più precisa interposizione dell’Unione, se non quella di proporsi nella fase di ricostruzione politica ed economica di un’Ucraina troppo a lungo martoriata.
Il sostegno militare dell’UE, al fianco della NATO, ha avuto un’importante funzione strategica e politica, ma la formazione di un esercito europeo, di cui tanto si discetta, non appare fattibile né opportuna, giacché contraddirebbe le ragioni stesse della reintegrazione continentale. Altrettanto si dovrebbe ritenere di una forza di interposizione europea, per la contrarietà di Putin ad ogni diretto coinvolgimento europeo.
L’esito immediato su cui si può puntare non è quello che un’Europa riconciliata riteneva di poter alfine conseguire, quanto semmai un risultato pragmatico, analogo a quelli che una comunità internazionale esausta ha in passato accettato, da Berlino alla Corea, dal Vietnam a Cipro.
In proposito, indispensabile parrebbe il contributo di una Cina che, sul suo quotidiano in lingua inglese, afferma che “l’intensificazione della crisi ucraina e del conflitto israelo-palestinese ha acuito le tensioni, eroso la fiducia ed incrementato il rischio di guerra nucleare. Il mondo è giunto in questo frangente a causa dell’uso e minaccia della forza da parte di alcuni dei maggiori paesi, col pretesto di tutelare la loro sicurezza nazionale”. (Con la sola scappatoia che “sono gli Stati Uniti ad aver beneficiato della crisi di cui sono stati gli artefici”).
Il che parrebbe confermare l’intenzione di Pechino di collocarsi in una posizione equidistante, eventualmente mediatrice, che contribuirebbe ad affermarla quale indispensabile interlocutore globale.
Il più ampio necessario contenitore, che l’Italia stessa per bocca del suo Presidente della Repubblica, dichiara indispensabile, non potrà però essere che l’ONU. Nell’ambito del quale andrà ricostituita la convergenza, se non la comunanza di intenti, fra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Un risultato che, se raggiunto, andrebbe ben oltre la soluzione della crisi ucraina (e di quella mediorientale).