Gli avvenimenti in Siria sono l’ultimo anello della catena di ripercussioni innescate dall’assalto di Hamas nell’ottobre dell’anno scorso. A conferma forse dell’efficacia della shock-terapia somministrata da Netanyahu, che tanta indignazione suscita nelle nostre coscienze.
La caduta di Assad, irriducibile elemento del ’fronte del rifiuto’, travolge i suoi stessi sostenitori: la Russia, di cui la Siria (assieme all’Irak) è stata per decenni il cliente mediorientale, e l’Iran che, dopo l’Hezbollah libanese, assiste al crollo del suo baluardo regionale. Ne approfitta la Turchia che, nel posizionarsi al fianco di Putin, ha tirato acqua al proprio mulino, sguinzagliando ora i ribelli nel perseguimento del suo intento egemonico.
L’America ha evitato di farsi coinvolgere da quando Obama aveva lasciato a Putin, sfidandolo, il compito di sbrogliare quella matassa.Mantenendovi peraltro una ridotta presenza militare, a protezione dei Curdi che, emarginati dai tempi di Versailles, appaiono condannati a farne ancora una volta le spese.
Imprevedibili rimangono comunque gli esiti dei rivolgimenti in corso in quel millenario crocevia storico, etnico e religioso, che gli Assad hanno tenuto assieme con metodi dittatoriali. Il Fronte di Liberazione del Levante, etichettato come terrorista, pare voler ammantarsi dell’originaria impronta non violenta dei Fratelli musulmani, ma le sue dichiarazioni rassicuranti andranno confermate dai fatti (il Vietnam, l’Afghanistan insegnano),
Le incertezze non mancano nemmeno nel rapporto fra Turchia e Russia, incrinato già nel Caucaso con la vittoria dell’Azerbaigian sull’Armenia, palesatosi ancora in Siria, messo alla prova anche in Libia, con Ankara a sostegno di Tripoli e Mosca dalla parte di Bengasi. La Turchia, che sui Fratelli musulmani continua a far affidamento, dovrà inoltre vedersela con l’Egitto e l’Arabia saudita.
Si potrebbe ritenere che, in un Medioriente in cui hanno tutti perso la faccia, Israele sia riuscito ad allentare il nodo scorsoio. Dovrà però a maggior ragione impegnarsi ora per raccogliere un più ampio consenso internazionale. In sostituzione delle ripetute, sterili, ‘spolette’ americane, andrà riattivata la diplomazia multilaterale svolta sinora con scarsi risultati.
Potrebbe quindi essere giunto il momento anche per l’Europa di ricollocarvi una sua più incisiva presenza, scevra da secondi fini che non siano quelli di normalizzare la geopolitica mediterranea nel suo complesso. Alleviando le responsabilità di un’America che, con Trump, conferma la propria riluttanza a sovraesporsi.
L’Unione europea, coadiuvata dai suoi membri più influenti nella regione (la Francia, l’’Italia?), dovrebbe adoperarsi ad esempio per ricostituire il ‘quartetto’ fra Stati Uniti, Russia, ONU e UE, impostato al momento delle illusorie ‘primavere arabe’; e reinserire la Turchia nella strategia di un’Europa di cui fa parte (se non altro per la sua appartenenza al Consiglio d’Europa) piuttosto che della NATO; attivando in proposito anche il Responsabile per la politica mediterranea appena istituito dall’UE.
Rimane anche da verificare se quanto sta avvenendo in Medioriente indurrà Putin a più miti consigli negoziali in Ucraina (e altrove), oppure se ne accentuerà la sindrome di accerchiamento, irrigidendone il comportamento. L’OSCE, di cui la Turchia si appresta a prendere la Presidenza annuale, sarà un più ampio banco di prova al quale la Russia sarà chiamata; anche se le esternazioni intransigenti di Lavrov, al Vertice annuale appena svoltosi a Malta, non lasciano ben sperare.
Circostanze tutte che dovrebbero contribuire a liberare le nostre opinioni pubbliche dalla monomaniaca, claustrofobica, sterile, contrapposizione fra pro- e anti-palestinesi.