Le gravi crisi ai confini orientali di casa nostra ci hanno fatto distratto da quella che ci sovrasta da Oltreatlantico. Comunque vada a finire la terza drammatica contesa americana, le cose sono infatti già radicalmente cambiate.
Basata sui principi libertari e cosmopoliti dell’Illuminismo, l’esperimento democratico americano è stato poi messo alla prova dall’immissione di una massa eterogenea di diseredati che ne ha alterato l’originaria impronta Wasp (bianchi, anglosassoni, protestanti). Provocando quella commistione fra suprematisti, evangelici e razzisti, surriscaldata dalla prolungata sovraesposizione internazionale postbellica e dalla transizione economica mondiale, alla quale stiamo assistendo.
Le tossine, avvertibili già ai tempi di Obama, si sono riversate, accentuandosi, nel populismo esasperato di Trump. Comunque vada a finire l’imminente prova elettorale, il nostro protettore non sarà comunque più quello che è stato in tutto questo dopoguerra.
La somma di nodi venuti al pettine, in un mondo che l’America ha globalizzato e rischia ora di abbandonare a sé stesso, interroga il Vecchio continente. Dopo i decenni di passiva subordinazione, non va perseguita un’illusoria ‘autonomia strategica’, bensì un più equilibrato partenariato transatlantico, che consenta di affrontare congiuntamente, sia pur diversamente, le nuove sfide, militari e non, all’ordine globale.
Il compito di un’Europa emancipata da (o orfana?) dell’America è da tempo quello di definirsi più efficacemente verso la Russia quanto in Medioriente. In ambedue i casi, dovrà dotare la sua proclamata ‘politica di vicinato’ di una maggiore forza di gravità, non più soltanto aprir loro le porte.
Costruita in un mondo pacificato, strutturalmente multilaterale, tenuta assieme da norme condivise, l’Unione fatica ad affrontare la sopravvenuta complessità dei rapporti internazionali. Anche se non la spada di Damocle, l’Unione deve poter fornire il necessario lubrificante all’inaridito strumento diplomatico. Operando proattivamente, non più soltanto reattivamente, per il contenimento e riassorbimento delle crisi, non soltanto a fini di ricostruzione delle macerie altrui.
Le passate iniziative in tal senso non sono mancate, della Dichiarazione di Venezia del 1980, al Quartetto in Medioriente, all’Accordo sul nucleare in Iran, alla ripresa del rapporto fra Serbia e Kosovo. Alla guerra in Ucraina, l’Unione deve poter fornire una via d’uscita meno radicale dell’adesione alla NATO; a Moldova e Georgia, delle prospettive più concrete per liberarsi dai condizionamenti russi; alla questione palestinese, un contributo ‘esterno’ in Libano, Siria e Iran (per non parlare della Libia) atto a modificare quelle equazioni regionali.
Inconsistenti rimangono i pretesi ostacoli dovuti all’allargamento istituzionale, che in materia di politica estera e di sicurezza non sussistono. In proposito, l’Unione può infatti demoltiplicarsi, all’interno, con le ‘geometrie variabili’ consentite dai Trattati e, verso l’esterno, dalla ‘Comunità politica europea’ fra gli Stati che nell’Unione si riconoscono.
Urgente è diventata pertanto la necessità di restringere il processo decisionale agli Stati membri più determinati. Ai quale l’Italia non potrà far mancare il proprio apporto, specie alle questioni mediterranee di suo più diretto interesse.
Quanto all’America, non ci rimane in extremis che incrociare le dita.