Chi fa da sé …

di 4 Ottobre 2024

Come volevasi dimostrare. Unanimemente criticato, isolato nella difesa delle proprie ragioni, Israele ha colpito al cuore anche l’altro suo irriducibile nemico, sostenuto anch’esso e foraggiato dall’Iran.

Un redde rationem che corrisponde all’interesse degli stessi paesi arabi che andavano normalizzando i loro rapporti con Tel Aviv. Una choc-terapia che potrebbe pertanto rivelarsi catartica per l’intera regione.

L’Occidente si dibatte invece ancora nel dilemma innescato dal crollo delle Torri (così come, nel nostro piccolo, dal rapimento di Moro): come combattere il Male senza ledere il Bene che vorremmo salvaguardare.

Proprio la sfida che il terrorismo ci rivolge; lo scopo che persegue. Rendendolo pertanto la causa, non già la conseguenza, del disfacimento dell’ordinamento internazionale cui siamo assistendo.

Gli stessi paesi arabi paiono essersi finalmente resi conto che sradicare i residui due movimenti terroristi, rispettivamente sunnita e sciita, costituisce una questione di ordine esistenziale non soltanto per Israele ma per l’assetto dell’intera regione.

Si dovrebbe quindi ritenere che ne emerga, paradossalmente, un effetto catartico che apra finalmente gli spazi necessari ad una diplomazia imputata finora di passività. Che, oltre a Gaza, dovrebbe ora adoperarsi anche in Libano per ottenere l’attuazione delle reiterate Risoluzioni dell’ONU che disponevano il ritiro delle milizie di Hezbollah dalla frontiera e il loro affiancamento all’esercito regolare libanese. Con l’interposizione di una forza di pace dell’ONU (affidata all’Italia che, nel momento del maggior bisogno, si preoccupa di ritirarla!)

Si è sempre detto che, così come la forza senza diplomazia,  anche la diplomazia senza la forza è sterile, per l’indispensabile reciproco sostentamento. Che non può più continuare ad essere affidato alle sole energie dell’America, sostenuta collateralmente dall’Europa.

Sono gli Stati arabi a doversela semmai ora vedere con le loro opinioni pubbliche, per anni strumentalizzate dalla ‘questione palestinese’ (non si dimentichi che, dopo aver normalizzato le loro relazioni con Israele, Sadat fu ucciso mentre in Giordania l’ordine interno rimane precario). 

Evidente ormai è la necessità di affermare la soluzione dei ‘due Stati’. Ciò che richiede non soltanto l’indispensabile ricomposizione dell’Autorità palestinese, ma anche con la reintegrazione dell’Iran nelle equazioni del ‘Grande Medioriente’. Recuperando in particolare quell’accordo sul nucleare, raggiunto nel concorso dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU (e dell’UE), che Trump sciaguratamente stracciò.

In Medioriente (come in Ucraina), le vie d’uscita non posso essere lasciate all’iniziativa delle parti direttamente interessate. E’ la comunione di propositi della comunità internazionale che è chiamata in causa. Se non altro, nella consapevolezza che, oltre a quelli israeliani, altri civili sono in ostaggio a Gaza e in Libano, ad opera delle milizie rispettivamente di Hamas e di Hezbollah. 

 “Bisognerà tornare a pensare, ma non mi ricordo più come si fa” sentenziò una delle donnine di Altan all’indomani del crollo delle Torri di New York. Oltre vent’anni fa! Il tempo pare essere trascorso invano. Non così, si dovrebbe supporre ormai, per Israele né per i suoi vicini.

 Le opinioni pubbliche occidentali, in particolare la nostra, si preparano invece a ‘celebrare’ l’anniversario del pogrom del 7 ottobre come “inizio della rivoluzione palestinese’! 

Dovremmo finalmente renderci conto che Israele (come l’Ucraina) siamo noi. Nel senso che la difesa di Israele (e dell’Ucraina) comporta la salvaguardia del sistema internazionale collaborativo, liberale, contro chi continua a volerlo distruggere. 

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