Berlino, la letteratura e il suo risvolto
di Andrea Apollonio
Ero arrivato nel mio albergo di Alexanderplatz nel primo pomeriggio ed avevo davanti qualche ora prima della presentazione. A Berlino c’ero già stato, ma non ricordavo il complesso museale “Topografia del terrore”: il nome, e la vicinanza al famoso check point “Charlie”, bastava a sbloccare un monopattino Uber. Mentre sfrecciavo lungo gli imponenti viali di stampo sovietico, ero pervaso da un senso di gratitudine.
Il giorno prima, la presentazione a Düsseldorf era andata molto bene. Organizzata dall’associazione “Italia Altrove” nella Stadtbücherei (una libreria statale di quartiere), vi ho trovato uno spaccato dell’Italia migliore (che importa dove vive, l’Italia migliore) che voleva capirne di più. Del libro e della sua storia, del fenomeno mafioso e delle sue evoluzioni. Complice anche la straordinaria conduzione di Daniela e il suo talento innato per la comunicazione (dovrebbe essere “scoperta” da qualcuno, l’Italia migliore è non solo nella scienza, ma anche nello sfolgorante talento), il dibattito è stato fluviale. La paziente impiegata tedesca della biblioteca ha dovuto far presente, con piglio nordico, che si erano fatte ormai le 10 di sera. Ci ha dovuto cacciare fuori; e noi, i più tenaci, dritti in un ristorante greco a riprendere il discorso.
La “topografia del terrore” è un’esposizione permanente sull’ascesa e sul declino del nazismo hitleriano, addossata ad un pezzo di muro ancora in piedi. In quel punto esatto c’era il quartiere generale della Gestapo e il comando delle SS. In questa storia del “terrore” hitleriano, nessun dettaglio, neanche quello più atroce, viene tralasciato. Uno sversamento di coscienza nazionale, come in molti altri punti di Berlino e della Germania. Un collega tedesco una volta mi ha detto che per loro è una vergogna nazionale; poi però, a mia domanda, ha aggiunto che questa vergogna non la sente “propria”, è piuttosto qualcosa che attiene alla vita dello Stato, come la bandiera o l’aquila stilizzata. Forse è la ragione per cui gli ostacoli della democrazia tedesca si sono rivelati insufficienti di fronte all’ascesa di un partito estremista come l’AfD. Ma questa è un’altra storia; o forse no.
Passeggiando, incrocio un gruppo di connazionali accalcati ad una guida. Pendono dalle sue labbra. È un uomo smilzo, tedesco, ma parla un ottimo italiano, con voce stentorea. Sembra di sentire Papa Ratzinger, e d’altronde il tono con cui elargisce le sue spiegazioni è ugualmente messianico. Con le mani indica la parte di muro rimasto: «Il muro non ci sarebbe stato senza il nazionalsocialismo, senza la Totaler Krieg». Sembra un grande conferenziere, anche lui ha talento. «Il posto in cui siamo è come un libro aperto, se noi giriamo le pagine ci troviamo la storia del Novecento. Ta ta ta ta ta».
Simulava adesso il rumore di pagine sfogliate, anche se l’inflessione rafforzativa tedesca trasformava la simulazione in una sinistra sventagliata di mitraglia. Aveva ragione, in ogni caso. A Berlino, come in nessun altro posto, è scritta la storia del mondo, se è vero che la tragedia del nazismo e la conseguente vergogna della divisione del mondo in blocchi sembra avere soppiantato la precedente storia universale, dopo averla fatta sprofondare in un buco nero cosmico.
Torno in albergo, tra poco devo incontrarmi con Francesco, il ricercatore italiano di letteratura latina e greca che presenterà il libro. Anche lui uno in gamba: traduce opere classiche, fondamentali ma dimenticate. Quante cose si dimenticano, in Italia. Intanto penso, perché quella sventagliata mi rimane in testa, ancora sinistra, e percepisco una correlazione: cosa c’entra con la presentazione del mio libro a Berlino, che in questa città puoi sfogliare la storia del mondo? Niente, non c’entra niente.
Da “Mondolibro” – punto di riferimento dell’intellighenzia italiana nella capitale tedesca – le vetrine sono ampie, coloratissime; l’atmosfera è accogliente; qui le presentazioni si tengono in una cantina, il che mi ricorda quei posti della mia adolescenza dove si evolve il mondo musicale underground. Al posto dell’acqua trovo una birra ghiacciata: a me sta bene. Si usa così, mi spiega Catia, che viene da Savona e che con il progetto di “Mondolibro” ha sposato la “missione” di tenere viva la conoscenza della letteratura italiana a Berlino. Tra coloro che sono venuti a sentire, ci sono Cesare e Said. Il primo, un giovane scrittore brillante, che ha esordito con Feltrinelli dopo aver vinto il premio Calvino; il secondo, un mercante d’arte iraniano, che parla un italiano fluente e soltanto dell’Italia, di cui pare innamorato. Prima della presentazione, facciamo due chiacchiere. Non torna nel suo paese da dieci anni. L’Iran, Israele, la guerra: faccio cadere qui il discorso e lui mi guarda come se mi invitasse ad essere più pragmatico, perché la storia di quella regione non può che andare in quella direzione. E’ rassegnato, ma consapevole. Perché è qui? «Perché voglio capire meglio l’Italia».
In effetti, Goethe diceva che per capire l’Italia, devi andare in Sicilia. «La Sicilia è la chiave di tutto». In effetti, eravamo tutti lì – come il giorno prima a Düsseldorf – per capirne qualcosa di più. «Ta ta ta ta ta». Mentre Said cambiava discorso, riportandolo sull’Italia, risuonava la mitragliata delle pagine girate con decisione. Se non capisci come siano potuti accadere gli olocausti del Novecento, non afferri l’aberrazione di quanto sta accadendo oggi in Medioriente. Said sembra però sollevato, ha cambiato argomento, parlare del suo paese lo incupisce; adesso comincia a farmi domande sul libro. Che senso ha la letteratura, oggi, se non produce quel suono secco ed esplosivo al contempo – la sventagliata – che soddisfa la necessità di pensare, di capire?
In quel posto, in cui si racconta la storia del mondo, io stavo raccontando – a Said, a Cesare, a Catia, a Francesco, a tutti gli altri – una porzione infinitesimale della storia del mondo. Che sia questa, oggi, con la metà dei lettori di ieri, l’unica vera possibilità di esistenza, l’unico motore cardiaco della letteratura?
Usciamo dalla cantina, torniamo nell’ampia sala di “Mondolibro”. Firmo qualche copia, sulla parete vedo dipinto l’incipit di una poesia di Pessoa, che spiega universalmente la sua arte: «Esse comboio de corda que se chama coraçao». Il rito che si stava consumando in quella libreria italiana a Berlino aveva senso, l’avrà per sempre. «Ta ta ta ta ta». Adesso il suono mi sembrava il ticchettìo del cuore.