Nella serata del 10 settembre si è svolto il tanto atteso dibattito tra il candidato repubblicano, l’ex presidente Donald Trump e la candidata democratica, la vicepresidente in carica Kamala Harris.
A otto settimane dalle elezioni, il dibattito – l’unico per ora in programma – ha offerto una rara opportunità per i candidati di presentarsi e di confrontarsi di fronte ad un pubblico televisivo di decine di milioni di elettori.
Inaspettatamente entrambi sono riusciti anche a parlare di politica, in particolare immigrazione, politica estera e assistenza sanitaria. In modo molto generico e superficiale certo, ma comunque persino accettabile per gli standard dei dibattiti che attualmente affollano l’etere.
Chi si aspettava insulti e volgarità è rimasto deluso. Qualche battutaccia ha ravvivato la serata, ma nulla di più. Persino l’inevitabile riferimento ai processi in corso è passato in secondo piano.
Ugualmente però è rimasto amareggiato chi si aspettava di assistere alla proclamazione di un vincitore.
La maggior parte dei media attribuisce la vittoria alla candidata democratica, ma sono molti i commentatori ad affermare che Trump non ha perso.
Kamala Harris è apparsa sicura nel presentare la propria offerta di leadership. Ha cercato di smarcarsi dall’ombra del povero Biden, senza tuttavia rinnegarne i risultati della amministrazione. Ha incalzato l’avversario toccando alcuni punti deboli della sua ingombrante personalità, come la noia durante i comizi o la inadeguatezza di fronte a Putin. È inoltre riuscita a schivarne le repliche più incalzanti, sia sulla questione dell’aborto, sia su quella della sua proposta economica e finanziaria. Questo forse il suo vero punto debole. Ma non ha mai colpito veramente duro.
Donald Trump, dal canto suo, è apparso incredibilmente impacciato. L’ex presidente, che ha trascorso settimane a lanciare attacchi personali su Harris, compresi insulti razzisti e sessisti, ha radicalmente cambiato atteggiamento per mostrarsi curiosamente rispettabile e forse persino autorevole. Ma l’esperimento sembra esserglisi rivoltato contro. Non solo non ha convinto, – e con il suo passato sarebbe stato davvero difficile farlo – ma è sembrato rimanere sulla difensiva per gran parte del dibattito. Quel personaggio che ha costruito gran parte delle sue fortune economiche e politiche sullo spregiudicato protagonismo mediatico è sembrato essere a disagio fin dal primo minuto. Fin da quella baldanzosa stretta di mano con la quale la Harris si è presentata a lui e agli americani tutti.
Più delle parole ancora una volta hanno pesato le immagini. Lo split screen ha sancito la vera differenza tra i due. Da un lato, Trump che, imbalsamato nel nuovo abito che ha voluto indossare, ha finito per sembrare non vecchio come Biden, ma addirittura anacronistico. Dall’altra, Harris che, pur non potendo parlare a microfono chiuso, esprimeva con la sua coinvolgente mimica facciale tutta una serie di commenti molto più eloquenti di tante repliche.
Vincere un dibattito, tuttavia, non significa automaticamente prevalere al voto del prossimo novembre.
Richard Nixon, bisogna dirlo una volta per tutte, non ha certo perso le elezioni perché sudava durante il dibattito televisivo con John Kennedy. Al netto delle polemiche sull’esito del voto in Texas e Illinois, le presidenziali del 1960 sono state tra le più combattute della storia e il voto in ben dieci Stati, l’equivalente di 136 grandi elettori, è stato aggiudicato con un margine inferiore o uguale al due per cento di differenza.
Hillary Clinton era apparsa decisamente più solida, padrona della situazione e persino arrogante nella consapevolezza delle sue capacità politiche, eppure nonostante tutti i commentatori le avessero attribuito la vittoria nei dibattiti, alla fine ha perso quella che sembrava una presidenza annunciata.
Nel dubbio che le smorfie o le faccine simpatiche – dipende dal colore politico di chi guarda il video – facciano o meno la differenza per i democratici, l‘evento più significativo della serata allora è così diventato l’endorsement di Taylor Swift per Kamala Harris e Tim Walz.
L’annuncio tanto atteso è finalmente arrivato. La pop star, probabilmente una delle più grandi icone della scena musicale, è venuta incontro alle aspettative del pubblico adorante e ha pubblicato la decisione di sostenere il ticket democratico.
Mentre ci si chiede se questo possa ulteriormente pesare in termini elettorali e non sia stato già scontato nei sondaggi – nessuno, del resto, si sarebbe aspettato che la cantante facesse il contrario – una curiosità merita di essere sottolineata.
Taylor Swift ha firmato il messaggio ai suoi 283 milioni di follower su Instagram come a childless cat lady, mandando una chiara risposta ad alcune controverse battute del candidato repubblicano alla vicepresidenza, James D. Vance, che in passato aveva critica le sostenitrici del partito democratico definendole “un gruppo di gattare senza figli che sono infelici nella loro stessa vita”.
Sembra difficile non ricordare Elly Schlein che volle replicare “sono una donna, amo un’altra donna e non sono una madre. Ma non per questo sono meno donna”, allo slogan elettorale di Giorgia Meloni, “sono Giorgia, sono una donna, sono una madre”.
Tristi segnali di un dibattito politico che non riesce ad uscire dalla palude della polarizzazione più becera.
Di LUCA MENCACCI è in uscita per Rubbettino il libro Dirty Politics. Diffamazione e Disinformazione nelle Campagne Presidenziali Americane