In Ucraina, in Medioriente, la diplomazia appare impotente. Diverse sono le ragioni dell’assenza di risultati negoziali nei due conflitti, dalle cause e componenti diametralmente opposte che sfuggono all’accurata analisi e comprensione delle nostre opinioni pubbliche.
In ambedue i casi, lo strumento diplomatico non è inefficace, quanto diversamente impedito. Le sabbie del Medioriente continuano ad inaridire i migliori propositi negoziali; la via d’uscita è stata più volte tracciata, ma le parti, troppo numerose, s’intralciano a vicenda. In Ucraina, l’irremovibile indisponibilità dell’aggressore, che agita la minaccia nucleare, impedisce ogni avvio a soluzione. È come se, in ambedue i casi, si fossero riproposti i condizionamenti della Guerra fredda.
Gli attesi ‘benefici della pace’ non si sono verificati, né i tentativi di sistemazione degli assetti europeo e mediorientale. Travolti dai conflitti in Kuwait, in Irak, in preda alle concorrenti ambizioni egemoniche di Iran e Arabia saudita, i Paesi arabi hanno finito con l’abbandonare la causa palestinese. Che avevano d’altronde riversato su Israele sin dal 1967, quando la striscia di Gaza e la Cisgiordania furono abbandonate al loro destino, rispettivamente dall’Egitto e dalla Giordania.
Quattro guerre, gli Accordi di Oslo (coronati dal Premio Nobel), quelli recenti ‘di Abramo’, non sono riusciti a decollare. Le esigenze di sicurezza hanno finora prevalso sulle ragioni della convivenza regionale. È della sistemazione dell’intero ‘Grande Medioriente’ che ormai si tratta. Sterili si dimostrano ancora i tentativi di Washington di suscitare la necessaria rispondenza, mentre irrilevante si rivela un’Europa che israeliani ed arabi hanno tenuto in disparte.
Il terrorismo vi si è radicato talmente che Hamas può presentarsi come necessario interlocutore negoziale, e che è ad Israele che si imputa la responsabilità degli inconcludenti contatti in corso. Nell’evidente impotenza di Qatar, Egitto e Stati Uniti; con l’Arabia saudita (e la Russia) per ora alla finestra, e l’Iran ai margini, minaccioso.
La soluzione non può essere lasciata all’iniziativa dei due contendenti. Il nodo gordiano richiede un taglio netto, con l’eradicazione di Hamas dalla fortezza di Gaza in cui si è asserragliato e la ristabilimento della piena rappresentatività dell’Autorità nazionale palestinese. Perché la diplomazia possa operare utilmente, indispensabile rimane la convergenza dell’intera comunità, non soltanto a livello regionale.
Diversa è la situazione in Ucraina, oggetto di un inequivocabile atto di aggressione territoriale, ad opera di un membro permanente di quel Consiglio di Sicurezza che dovrebbe governare il mondo.
La diplomazia non trova lo spazio per inserirvisi, giacché il Cremlino pretende la preventiva accettazione delle proprie condizioni. Soddisfacendosi presumibilmente di una situazione di stallo che affiancherebbe l’Ucraina alle perduranti ‘crisi congelate’ lungo la frontiera di un rinnovato confronto Est-ovest. Il che basterebbe per impedirne l’integrazione nell’Unione europea, oltre che nella NATO.
L’Unione europea, potenza intrinsecamente politica emersa da una confusa tornata elettorale, fatica a proporsi come il necessario fattore di mediazione diplomatica. Riducendoci ad essere meri spettatori di due improvvise tragedie, rispetto alle quali ci rassegniamo, convincendoci persino di esserne estranei.
Il che ci esclude però dal ‘grande gioco’ che sembra ormai riservato all’America (di Kamala?) e alla Cina.