La rinuncia di Biden ha consentito di ristabilirne i termini essenziali della campagna presidenziale americana, rimettendo, si dovrebbe dire, la palla al centro. Oprah Winfrey, celebrata personalità televisiva, ha efficacemente detto come si tratti sostanzialmente della “contrapposizione fra il buon senso e il nonsenso“.
Su una campagna elettorale che andava irrigidendosi in una sterile polarizzazione, l’improvvisa apparizione di una personalità che, per il suo genere, la sua etnia ‘non bianca’, il suo curriculum di pubblico ministero, poi senatore, dovrebbe avere un effetto dirompente, chiarificatore.
Ad un Partito Repubblicano radicalizzatosi in un grossolano populismo imputabile, quello Democratico si è efficacemente dimostrato eterogeneo, intrinsecamente ‘liberal’. I vari interventi alla Convenzione di Chicago hanno tutti enfatizzato la specifica natura dell’‘esperimento americano’, di quei valori di libertà personale, dignità, tolleranza e solidarietà sociale che contraddistinguono una nazione plurale, la sola fondata sugli ideali repubblicani invece che sull’etnia.
La candidata Harris si è rivolta alla classe media che rappresenta la spina dorsale della nazione, ma che si trova oggi nella necessità di un più consistente pubblico sostegno economico e sociale. Da tranquillizzare e stimolare, come ai tempi del ‘new deal’ rooseveltiano, condito dal ‘yes we can’ obamiano. Piuttosto che a livello nazionale, dove le prerogative degli stati federati prevalgono rispetto al governo federale (tant’è vero che in molti di essi l’affiliazione politica del Presidente eletto differisce spesso da quella del rappresentante al Congresso o al Senato), l’esito elettorale si ripercuoterà soprattutto sull’assetto dell’intero ordinamento mondiale.
Un ritorno di Trump riproporrebbe l’impostazione bilaterale, transattiva, che tanti risultati destabilizzanti tuttora avvertibili ha prodotto in Ucraina, in Medioriente, persino nell’Indo-Pacifico. In diretta contrapposizione a Trump, la nuova candidata del partito democratico ha rassicurato il mondo esterno sulla tenuta della politica estera americana, ricordando che l’America dispone di una ‘forza letale’, da mettere però a disposizione della sua leadership mondiale. Ribadendo l’impegno a sostenere l’Ucraina; a difendere al contempo la sicurezza di Israele e il diritto della Palestina all’autodeterminazione, ma qualificando Hamas di ‘organizzazione terrorista’; stigmatizzando l’Iran e la Corea del Nord; astenendosi peraltro dal precisare il suo atteggiamento nei confronti della Cina.
Chiunque vinca, sarà comunque d’ora in poi più difficile contare sul diretto coinvolgimento americano nelle principali situazioni di crisi. Bisogna ritenere che la funzione di Washington si manifesterà piuttosto in termini di capacità di aggregare coalizioni e di ricomporre le istituzioni internazionali, i partenariati strategici piuttosto che le alleanze militari.
Non è dato ancora sapere chi sarà Kamala Harris, se fosse eletta. Come per Biden, a rivelarlo saranno le circostanze alle quali sarà confrontate. Diversamente da Trump, che abbiamo già visto all’opera e alle cui conseguenze interne e internazionali bisogna tuttora rimediare.
Comunque vada, l’Europa deve prepararsi al giorno dopo. Nell’interesse stesso dell’America, giacché, per molti aspetti, politici, strategici, economico-sociali, le due sponde dell’Atlantico vanno riavvicinandosi. Aumentando conseguentemente la forza di attrazione di un Occidente in preda ad un’apparente, ingiustificata, rassegnazione.
Molto dipenderà pertanto dalla rispondenza di quanti si sono finora adagiati nel tanto denigrato unilateralismo di Washington, dall’Europa all’Australia, ma anche dall’India al Brasile.