La Francia ha retto. Grazie alla sua struttura costituzionale forse più che la sua società, da sempre irrequieta ma fiera della sua tradizione storica.
Ancora una volta Parigi si posiziona come punto di riferimento per il resto dell’Europa, in cui la Germania non ha ancora ritrovato il proprio ‘ubi consistam’, il Regno Unito pare rendersi conto di dover fare una qualche marcia indietro con Bruxelles, la Russia in agguato. E l’Italia?
Dovremmo ritenere che, nel nostro continente, dopo le molteplici scosse provocate dalla caduta del Muro, si stia finalmente conseguendo un assestamento degli schieramenti politici che hanno perso le loro antiche connotazioni.
Il confronto fra opposte ideologie che ha segnato l’intero Novecento si è dileguato, sostituito però dalla globalizzazione delle comunicazioni e della finanza, decretando l’avvento di un’era del tutto inedita, che ha sconvolto i rapporti tanto nazionali quanto internazionali. Gli eventi si sono accumulati, senza che nessuno si preoccupasse di indirizzarne l’impeto, nella presunzione che le cose si sarebbero sistemate da sé.
Da molti criticata per le sue manie di ‘grandeur’, la Francia è forse l’unica ad essersi ammantata della prospettiva di una Europa unita. Per interesse nazionale, certo, come dovrebbe essere anche per gli altri, bisognosi tutti di una comune solidarietà. Dovremo quindi rispecchiarci nell’esperienza elettorale francese.
Nel comune intento di ridurre la radicalizzazione della politica. Che a Parigi l’estremista di sinistra abbia dichiarato di aver sconfitto il Presidente, piuttosto che la destra, è un segno di quanto ci sia ancora da fare. Un virus che andrà accuratamente isolato, prosciugando quel distacco dalla politica rappresentato da un astensionismo che ha vulnerato la democrazia.
Pur nella diversità dei rispettivi ‘contratti sociali’, l’esito delle elezioni in Gran Bretagna, in Francia, in Italia, ha dimostrato la necessità della ricomposizione di quel centro nel quale le aspirazioni dei diversi strati delle società debbono incontrarsi, per far fronte in comune alle rispettive diverse esigenze.
“Il centro non può reggere”, lamentava W.B. Yeats alla fine della Grande guerra; sappiamo quel che ne è conseguito. Dopo un secolo, l’obiettivo principale parrebbe dover ancora essere quello di ricomporre la funzione propulsiva del ceto medio, il ‘Terzo stato’ che ha innervato l’intero Ottocento ma che, dopo l’era glaciale della Guerra fredda, la globalizzazione delle comunicazioni e della finanza ha relegato ai margini della Storia.
Che, pur dotato della necessaria competenza e motivazione, non è riuscito ad arginare lo smarrimento e il conseguente risentimento popolari. Contro il quale si rivolge pertanto oggi il risentimento di quanti lo considerano una élite insensibile ed arrogante, inadatta ad affrontare i problemi sociali della contemporaneità.
Avvalendosi del presidenzialismo su cui si fonda la ‘quinta repubblica’, Macron, al pari di Sarkozy, incarna il reiterato tentativo, di marca propriamente liberale, di ricomporre quel centro fra le estreme sponde di sinistra e destra, che ormai si toccano. I problemi di fondo permangono, con l’immigrazione a fattor comune. Da affrontare tutti necessariamente a livello comunitario.
Anche a Bruxelles, il centro ha retto, con la riconferma della coalizione al comando, costringendo all’auto-emarginazione gli euroscettici, i ‘patrioti’ apertamente capeggiati dall’ungherese Orban. Alzando lo sguardo, difficile rimane invece profetizzare se tale effetto potrà riflettersi sulle elezioni presidenziali americane. Sul fronte orientale, il confronto con una Russia non più internazionalista, ma sempre rivoluzionaria, dipenderà da quanto il nuovo proletariato post-industriale si riconosca nella destra nazionalista piuttosto che nell’antico schieramento internazional-socialista.
In mezzo al guado, la borghesia, antico fattore di intraprendenza e innovazione, dovrebbe riuscire a riproporsi come luogo di incontro, di mediazione, fra gli stessi schieramenti politici che tardano a ritrovare la loro ragion d’essere.
Nel rinnovamento di quel ‘contratto sociale’ con lo Stato moderno, stretto dai tempi di Rousseau.