Che settimana (per non parlare della Nazionale di calcio)!
L’esito delle elezioni in Francia, il dibattito fra i due candidati alla presidenza americana, la designazione delle alte cariche nell’Unione, persino la contesa presidenziale in Iran, hanno evidenziato la complessità delle attuali condizioni internazionali, che scuote i residui sentimenti di comune appartenenza.
Persino nelle nostre ‘società libere’, la contrapposizione fra le prese di posizione preconfezionate, le frasi fatte, gli slogan privi di sostanza, sta offuscando quel dibattito articolato che rappresenta l’essenza del processo democratico.
Ci si chiede se le democrazie siano veramente immuni dal virus autoritario, di destra o di sinistra. Ci si rende conto di quanto l’eccesso di tolleranza che le distingue rischi di tramutarsi in indifferenza. La democrazia va non soltanto vissuta, ma anche partecipata, sostenuta cioè attivamente. Ad evitare che diventi la ‘macchina produttrice di scontento’ che l’indiano Amitav Ghosh denuncia.
Evidente comunque è che nessun dirigente occidentale dispone più delle chiavi di lettura per schiudere la porta al futuro; mentre gli autocrati possono prescinderne, limitandosi a sfruttare le incertezze dei loro antagonisti. Nella cacofonia in cui la democrazia si è ridotta, l’invocazione di un qualche leader è contraddetta dalla repulsione che si manifesta ad ogni sua apparizione (esemplare, in Europa, il destino di Sarkozy e Macron, così come quello dell’America nel mondo).
È come se la democrazia fosse diventata bulimica. Strumento raffinato, basato non soltanto sulla maggioranza aritmetica emersa dalle elezioni, ma sul coinvolgimento responsabile dell’intera società, non riesce più a metabolizzare la quantità di sollecitazioni alle quali è oggi sottoposta. Suscitando reazioni sovraniste, agorafobiche, che ne rattrappiscono la reattività. Generando persino l’ossimoro della “democrazia illiberale” ungherese.
Ai suoi fondatori anglosassoni si deve l’essenziale impostazione del liberalismo dal basso, dall’interno delle singole società, non dall’alto, ad opera di una élite salvifica, nazionale o sovranazionale. Non saranno certo le pronunce delle Corti di giustizia internazionali a ristabilire norme di comportamento comuni, che vanno invece prioritariamente condivise nel concorso dei singoli Stati. Nell’ambito delle istituzioni internazionali che del liberalismo, nel quale l’Occidente confida, costituiscono il presidio.
Diversamente dagli Stati che le compongono, l’Unione europea o l’Alleanza atlantica operano anch’esse sulla base del consenso piuttosto che delle imposizioni dei loro ‘maggiorenti’. Una condizione che dovrebbe ispirare anche l’Italia che alle istituzioni internazionali si è affidata sin dall’immediato dopoguerra.
La pretesa del nostro Primo Ministro di vederci riconosciuto “il ruolo che ci spetta“, indipendentemente dal nostro specifico contributo, prescindeva dal ‘libretto di istruzioni’ per l’utilizzo della macchina comunitaria; il che la ha condotta in un vicolo cieco. Il rischio di una sua emarginazione a Bruxelles la indurrà forse a risolvere le stesse contraddizioni che traspaiono all’interno al proprio governo. A dimostrazione di quanto, anche a livello nazionale, le pagelle vengono distribuite all’interno delle organizzazioni alle quali si appartiene.
Dobbiamo comunque renderci conto che, indipendentemente da Biden o Trump, l’America non dispone più della preminenza di cui si è finora avvalsa. Che le condizioni internazionali, da lei stessa promosse durante l’intero secolo scorso, hanno finito col ‘democratizzare’ l’intera comunità mondiale, con l’emancipazione di tanti nuovi Stati. Il che implica la convergenza di intenti dei suoi maggiori protagonisti. In particolare dell’Europa unita, nel cui ambito gli interessi nazionali possono essere debitamente salvaguardati.
La cosiddetta ‘età dell’informazione’, che nel Settecento con Diderot, Rousseau, Montesquieu condusse alla rivoluzione francese per poi diffondersi nell’intero continente, si mangia ormai la coda, diventata com’è una ‘età della comunicazione’. Il che non è la stessa cosa, giacché privilegia l’opinione sulla competenza, la soggettività sull’obiettività, le fake news e i ‘fatti alternativi’ sui quali i detrattori della democrazia fanno affidamento.
Per poter rinsavire, bisogna proprio toccare il fondo?