Era meglio cambiare canale. Il dibattito televisivo tra Joe Biden e Donald Trump

di 1 Luglio 2024

di Luca Mencacci*

*autore di «Dirty Politics. Diffamazione e Disinformazione nelle Campagne Presidenziali Americane» in uscita in autunno per Rubbettino

Nella serata di giovedì 27 giugno è andato in scena a qualcosa di inedito nella storia delle presidenziali americane.

Il presidente democratico degli Stati Uniti Joe Biden e il suo rivale repubblicano, l’ex presidente Donald Trump si sono affrontati in un dibattito televisivo prima che le convention dei rispettivi partiti ufficializzassero le loro candidature. 

Sin dalla loro prima organizzazione nel 1960 tra John F. Kennedy e Richard Nixon, tutti questi eventi sono sempre stati tradizionalmente programmati in Autunno, a poche settimane dalla fine della campagna elettorale.

Ad onor del vero, nelle primarie, entrambi avevano conquistato il diritto a giocarsi questa particolare rivincita.

Tuttavia, la sostanziale esautorazione di un momento formale così importante, non solo a livello simbolico, come la convention di partito, nella quale il candidato si presenta a tutti i suoi elettori e si riconcilia con quelli che fino ad allora sostenevano i suoi avversari interni, sembra davvero significativo di un processo di personalizzazione mediatica della politica, che sta ormai fagocitando contenuti e riti della democrazia rappresentativa. 

L’evento è del resto stato organizzato ignorando completamente la Commission on Presidential Debates, fondata nel 1987 sotto il patrocinio congiunto dei partiti democratico e repubblicano proprio al fine di regolare lo svolgimento dei dibattiti televisivi

Non è certo un caso che i due principali partiti della storia elettorale non siano riusciti a liberarsi dalla ingombrante presenza di due candidati che, a pochi mesi dall’Election day, appaiono ben poco popolari.

La stesso dibattito, poi, non ha aggiunto molto al clima di polarizzazione che ormai pervade la democrazia americana e non ci è piaciuto per almeno due motivi.

Il primo è la mancata stretta di mano tra i due candidati, che, giova ricordarlo, non sono due persone qualsiasi, ma il presidente in carica e un ex presidente. Non è stata solo una spiacevole caduta di stile, ma lo spreco dell’occasione di mandare alla nazione un autorevole messaggio di rispetto istituzionale.

In assenza dell’auspicato coordinamento, anche una iniziativa personale in tale senso avrebbe rappresentato una preziosa opportunità politica per entrambi. 

Se Biden avesse steso la mano pronto a stringere quella di Trump, avrebbe dimostrato rispetto non tanto per il suo avversario, quanto per quella notevole moltitudine di elettori repubblicani che lo sostengono e che vengono descritti nel mainstream mediatico vicino ai democratici come cittadini di minore dignità sociale, per usare un eufemismo. Dei miserabili per usare le parole di Hillary Clinton. Ricordare di essere stato e di voler continuare ad essere il presidente di tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro preferenze politiche, manda quel segnale di serena autorevolezza che non dispiace certo ai tanti indecisi si questa elezione. Soprattutto a quelli residenti nella manciata di stati chiave che come al solito ne deciderà l’esito. 

Se al contrario lo avesse fatto Trump, avrebbe finalmente dimostrato di aver superato la stagione del complottismo, che lo ha portato ad errori macroscopici come il controverso protagonismo in occasione del tragicomico assalto a Capitol Hill, e soprattutto avrebbe completamente spiazzato l’avversario depauperando notevolmente tutta quella narrazione sull’autoritarismo e sul pericolo per la democrazia che alimenta sua la campagna. 

Del resto se in passato hanno concesso la vittoria personaggi del calibro di Richard Nixon dopo la sconfitta con John F. Kennedy nel 1964, di Al Gore e di John Kerry con George W. Bush rispettivamente nel 2000 e nel 2004, forse allora poteva essere arrivato il momento di riconsiderare la questione. 

Anche solo per l’efficacia mediatica del gesto.

Il secondo motivo per il quale il dibattito non ci è piaciuto si riassume praticamente in tutto il resto della serata. I due candidati non hanno fatto nulla per migliorare le cattive impressioni della vigilia, mentre i moderatori della CNN, Jake Tapper e Dana Bash, ostacolati dalle regole concordate e dall’assenza del fact checking, praticamente sono rimasti seduti lì a guardare come se fossero semplici spettatori. 

Il dibattito è andato avanti per più di mezz’ora prima che si affrontasse il tema di Capitol Hill o quello delle condanne penali recentemente subite da Trump per l’affaire Stormy Daniels. Ma questi si è potuto difendere con una banale alzata di spalle, come a dire che ognuno in famiglia tiene suoi problemi. Come un figlio che rischia venticinque anni di carcere per aver comprato un’arma tacendo il suo stato di tossicodipendente.

Sono cose che possono succedere. 

Eugene V. Debs, del resto, aveva condotto la sua campagna elettorale per le presidenziali del 1920 dal carcere federale di Atlanta, dove stava scontando una condanna a dieci anni per aver contestato la partecipazione americana alla prima guerra mondiale. E riuscì pure a prendere il più alto numero di voti di tutti i tempi per un candidato del Partito socialista.

A ben vedere, per tutta la serata, Donald Trump ha mentito spudoratamente su qualsiasi tema e Joe Biden ha cercato disperatamente di ricordarsi ogni argomento.

Ma questo è un grave problema solo per i democratici. Perché se per gli elettori di Trump, il fatto che il loro candidato sia un bugiardo patologico poco importa, per quelli democratici la constatazione di una sopraggiunta incapacità psicofisica di Biden è stato un evidente shock. 

Il presidente in carica si è progressivamente migliorato con il passare del tempo, ed alla fine è apparso paradossalmente più lucido, ma la sua performance mediatica è stata nel complesso a dir poco imbarazzante.

Nonostante personaggi autorevoli del partito si siano stretti intorno a lui, da più parti se ne chiede un passo indietro. Il New York Times ha esplicitamente intitolato un suo editoriale, scrivendo che l’unico servizio che Biden ormai può rendere al suo Paese è quello di abbandonare la corsa. 

La questione è delicata. Non solo Biden è il presidente in carica, ha vinto le primarie e non ha alcuna intenzione, almeno per ora, di ritirarsi. Ma la prospettiva di una broken convention non deve essere sottovalutata. Presentarsi il 19 agosto allo United Center di Chicago senza un candidato forte, capace di riunire tutte le fin troppo eterogenee anime del partito, rischia di trasformarsi per i democratici in un suicidio annunciato. 

Per ora i vari candidati alla eventuale sostituzione appaiono tutti uniti e solidali nel mantra “anyone but Trump”, ma una volta riaperta la possibilità di correre per la Casa Bianca si potrà stare certi che nessun colpo sarà considerato troppo basso. I malumori si trasformeranno in rancori e questi, in una elezione che si giocherà sull’astensione sul voto degli indecisi in pochi stati chiave, finiranno per essere determinanti. 

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