Invochiamo la pace come indiscutibile principio astratto, non come concreto progetto alternativo alle armi. Nell’invocarla, abbiamo superato ogni senso logico, se non semplicemente il buon senso.
Prendiamo convulsamente posizione sulla questione palestinese, ma non sappiamo che dire di quella ucraina. Dovremmo aver scoperto che anche se non andiamo alla guerra, è la guerra che viene a noi; che per difendersi bisogna anche contrattaccare. E che la popolazione civile viene ormai deliberatamente coinvolta, come obiettivo o come scudo.
Non possiamo per questo accusare, persino da un alto scranno di governo, Francia e Regno Unito, membri del Consiglio di Sicurezza, per non parlare dei baltici e polacchi, di mettere a repentaglio la pace (quale?). Specie quando è l’America a dettare la linea. Quell’America alla quale l’Italia si è sempre aggrappata ogni qualvolta il nostro rapporto con l’Europa si complicava.
Il Primo Ministro fatica a tener ferma la barra, arginando l’antiamericanismo strisciante e il pacifismo filorusso che continuano ad inquinare le acque. Attorno a lei continuano a navigare i populisti della più varia provenienza e i cosiddetti ‘indipendenti’ inseriti nelle varie liste elettorali.
Il florilegio di insensatezze da conservare a futura memoria include chi afferma che “l’Italia è totalmente allineata ai più bellicosi … soffia sul fuoco”; chi sostiene che “se le alleanze, invece dell’umanità, difendono la guerra, allora è il caso di scioglierle”; chi esorta a “favorire un ruolo diplomatico e politico dell’UE per costruire un percorso [?] che faccia cessare quel conflitto”, chi sostiene che “Putin vuol negoziare: lui è per la sicurezza reciproca; l’Ucraina ha escogitato il conflitto per sconfiggere la Russia”.
Grotteschi più che offensivi gli strali sguaiati che abbiamo rivolto al Segretario Generale della NATO (“o ritratta o chiede scusa o si dimette”!), al Presidente francese (“guerrafondaio”), lo stesso capo della diplomazia europea Borrell (“bombarolo”). Da noi, i propagandisti del Cremlino non hanno più alcun motivo per scomodarsi.
Non si può invocare l’art.11 della nostra Costituzione che ‘ripudia la guerra come strumento di offesa’, non certo di difesa. Né svuotare implicitamente il valore della tanto osannata ‘Resistenza’. Il ‘siam pronti alla morte’ nell’Inno nazionale non può valere soltanto per le partite di calcio. Il conflitto nell’ex-Jugoslavia, le ‘missioni di pace’ alle quali abbiamo attivamente partecipato, avrebbero dovuto vaccinarci contro tanta immacolata presunzione.
L’assistenza militare all’Ucraina non si differenzia dal lend-lease disposto dagli Stati Uniti prima di entrare in guerra, a favore di Inghilterra e Russia. L’entità delle forniture viene lasciata ai singoli alleati, proprio per evitare di dover suscitare quell’Art.5 che risulterebbe dal coinvolgimento della NATO. Non soltanto per evitare le conseguenze nucleari che Mosca continua a sbandierare, ma anche per non fornirgli il diretto confronto con Washington che gli restituirebbe lo status di superpotenza che non è apparentemente in grado di ottenere altrimenti.
Pascal diceva che il diritto senza la forza è impotente, mentre la forza senza diritto è tirannia. Parimenti, la diplomazia senza la forza è sterile; così come la forza senza diplomazia è nuda. Le rievocazioni dello sbarco in Normandia dovrebbero servire a dimostrare i sacrifici necessari per sconfiggere il ‘male assoluto’. Putin lo è diventato per la devastazione che persegue dello stesso sistema internazionale, che trascende il confronto militare sul terreno.
Si dovrebbe anche riconoscere che, in Ucraina, l’Alleanza atlantica ha ritrovato la sua originaria funzione di contesto transatlantico politicamente consultivo, piuttosto che rigido schieramento militare. A metà luglio avrà luogo il Vertice per il 75° dell’Alleanza, mentre il coordinamento operativo per l’Ucraina rimane affidato all’informale ‘gruppo di Ramstein’, che include anche ventiquattro paesi che nell’alleanza si riconoscono, oltre alla stessa UE.
Le invocazioni di una pace purchessia non sono che l’espressione di nobili sentimenti, che ha l’effetto di escluderci dal novero dei paesi che contano. Che debbono affrontare a viso aperto le nuove sfide, in un mondo che rischia altrimenti di regredire nella legge del più forte e determinato a far valere le proprie ossessioni.
L’appuntamento europeo avrebbe dovuto concentrare il dibattito elettorale sulla sostanza e le implicazioni delle crisi che ci circondano, dall’Ucraina, ai Balcani, al Medioriente. E’ alla politica interna che le varie formazioni politiche si sono ancora una volta invece dedicate.
Oltre all’esito del voto europeo, l’imminente G7 da noi presieduto, e il vertice sull’Ucraina convocato per metà giugno in Svizzera, ci attendono alla prova.