di Gian Franco Svidercoschi
Basta andare su Google, cliccare su “Congregazione per la dottrina della fede” e aprire la pagina con la lista completa dei documenti del dicastero vaticano. In testa all’elenco, proprio perché recentissima, la “Dichiarazione” con un titolo che sembrerebbe aver più del devozionale, Fiducia supplicans; ma che invece, spalancando le porte delle benedizioni a “tutti”, coppie gay comprese, ha scatenato la furibonda reazione di cardinali e di interi episcopati.
Poi, una sorpresa che ha quasi del giallo. Al secondo posto dell’elenco, il biglietto della Prefettura della Casa pontificia per l’udienza del Papa, alle 8 del 18 dicembre 2023, al prefetto, il cardinale Victor Fernandez, e al segretario, mons. Armando Matteo, della Congregazione. In alto a sinistra, scritto a mano, chiaramente un’aggiunta, il titolo della “Dichiarazione”. Ma perché? Che ci sta a fare, quel normalissimo invito, e che documento non è, in mezzo a quei documenti così solenni? Oltretutto, scorrendo rapidamente la lista, si scopre subito che è in assoluto la prima volta.
Ragionandoci un po’, e con l’aiuto di qualche monsignore che frequenta il Vaticano da una vita, si comincia pian piano a capire. La pubblicazione di quel biglietto, in quel posto preciso, è una scelta fatta di proposito. Una scelta per lanciare un segnale, un avvertimento, allo schieramento “avversario”. E forse anche di più. Come in guerra, un commando conquista la vetta di un monte, o una postazione decisiva, e ci pianta sopra la propria bandiera. Ma forse, per spiegare ancora meglio, converrà raccontare i fatti dall’inizio.
È il 21 febbraio 2021. Firmato dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Luis Ladaria, esce un “Responsum” dai toni molto preoccupati ma anche molto duri. “…la Chiesa non dispone, né può disporre, del potere di benedire unioni di persone dello stesso sesso…”. In fondo, si precisa che in un’udienza al segretario, che era a quel tempo mons. Giacomo Morandi, il Papa “è stato informato e ha dato il suo assenso alla pubblicazione del suddetto ‘Responsum’…”. Strano che in udienza non ci fosse andato il prefetto. E strana anche quella formula dell’approvazione pontificia. Fatto sta che di lì a pochi giorni, mentre scoppiano polemiche e contestazioni contro il documento, gente vicina a Francesco fa sapere discretamente che anche il Papa (qualcuno arriva a dire che sarebbe stato “raggirato”) non è affatto d’accordo con i contenuti del “Responsum”.
Viene fuori per gradi, la contrarietà di Francesco. Prima, nei discorsi, solo con qualche accenno. Poi, esplicitamente, il 2 ottobre 2023, con le risposte ai “Dubia” di cinque cardinali che denunciano il diffondersi di affermazioni, anche da parte di “alti prelati”, in palese contraddizione con la dottrina e la disciplina della Chiesa. È il Papa che firma, ma c’è chiaramente la mano di Fernandez, da un paio di mesi a capo dell’ex Sant’Offizio. Nella seconda delle risposte, affrontando la questione, si parla di “persone”, e mai di unioni o di coppie, men che mai dello stesso sesso. Si auspicano forme di benedizione adeguate, che non trasmettano un concetto errato di matrimonio. Ma, l’assoluta mancanza di riferimenti al “Responsum”, è un sintomo inequivocabile che sta per accadere qualcosa di grosso.
E difatti, il 18 dicembre, esce la “Dichiarazione”. Il “Responsum” viene liquidato in una maniera a dir poco indecorosa. Senza tener conto di quanti lo avevano accolto con favore ma – sentite dentro che ipocrisia! – andando “incontro, con carità fraterna”, a quanti invece non ne avevano condiviso la risposta negativa. E così, si riconosce la possibilità di “benedire le coppie in situazioni irregolari e le coppie dello stesso sesso, senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio”.
Stavolta, però, è il prefetto in persona a sottoporre il documento all’esame del Papa. E stavolta, come si legge già nelle prime righe, il Papa “l’ha approvato con la sua firma”. Esattamente ciò che di nuovo si decretava in un “Rescriptum” – ma che coincidenza! – di poche settimane prima: ogni testo della Congregazione, passato presente e futuro, sarebbe stato valido avendo in calce “la sola firma del Sommo Pontefice”. Di conseguenza, anche il “Responsum” non era più da considerarsi approvato dal Papa. Un “piano” – a partire da quel famoso biglietto dell’udienza pontificia a Fernandez – architettato alla perfezione. Ma che ha, pur sempre, dell’incredibile.
Il fatto è che sia il “Responsum” che la “Dichiarazione” si richiamano espressamente a pronunciamenti di Francesco, talvolta agli stessi passi di un testo, come il n. 150 dell’esortazione Amoris laetitia. Eppure, in neanche tre anni, c’è stato un radicale capovolgimento, sul piano non solo pastorale ma anche su quello della teologia morale, addirittura della dottrina. E dunque, a spiegarlo, visto che il Papa è rimasto sempre lo stesso, non c’è altro che il cambiamento avvenuto nel frattempo al vertice della Congregazione per la dottrina della fede. Un cambiamento di persone, certo, ma anche di modi di interpretare e trasmettere la Parola rivelata.
E si avverte subito, questa svolta, nella presentazione che il cardinale Fernandez fa all’inizio della “Dichiarazione”. Parla di approfondimento del “significato pastorale delle benedizioni”, di riflessione teologica basata sulla “visione pastorale” di Francesco (19 citazioni su un totale di 31, e non poche tratte dai discorsi alle udienze generali, già considerati evidentemente insegnamento magisteriale), fintanto ad arrivare al “vero sviluppo” che c’è stato rispetto a quanto era stato affermato al riguardo, lungo i secoli, nel magistero e nei testi ufficiali della Chiesa. Uno si immagina chissà che cosa! E invece tutto si risolve nell’aver acquisito la comprensione, teologica e pastorale, che esiste una distinzione tra le benedizioni rituali e liturgiche, come avviene nel matrimonio, e le benedizioni “spontanee”, più assimilabili ai gesti della devozione popolare, e quindi “applicabili”, diciamo così, anche a quanti non vivano secondo le norme della morale cristiana ma chiedano “umilmente” di essere benedetti.
Intendiamoci bene. I tanti interrogativi, le tante perplessità, che restano – e inquietano – dopo aver letto queste spiegazioni, non devono però far dimenticare assolutamente un principio: che la Chiesa, nel nome di un Dio che è amore, deve aprire le braccia a tutti, essere misericordiosa con tutti, dare un “posto” anche a quanti non rispettano la sua dottrina, le sue regole. Come ci ha ricordato spesso Francesco, e ha ripetuto in Portogallo alla Giornata mondiale della Gioventù: “…Tutti, tutti. Non mettiamo dogane nella Chiesa. Tutti!”.
Ma questa “accoglienza universale” – e lo ha spiegato proprio la rivista dei gesuiti, Civiltà Cattolica – non significa affatto relativismo, né mettere da parte i valori ideali. “…quando il Papa parla di accogliere tutti, non si riferisce, in particolare, a coloro che si sono risposati civilmente dopo il fallimento di un matrimonio sacramentale, o alle persone omosessuali. La preoccupazione del Papa è molto più ampia… Afferma che la Chiesa deve saper accogliere tutti, ma non dice – né può dire – come avverrà caso per caso”. E non è forse il contrario, o quasi, di come è stata impostata la “Dichiarazione”, che fa invece trasparire una certa relativizzazione della dottrina?
Molti ricorderanno quel famoso inciso di Giovanni XXIII, nel discorso all’apertura del Concilio Vaticano II. “Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, e altra è la formulazione del suo rivestimento”. Un distinguo – coraggiosissimo in quel momento – che sottolineava come fosse necessaria una evoluzione nella comprensione delle questioni di fede e di morale. Mentre, a leggere questa “Dichiarazione”, c’è come la sensazione che, il processo di crescita per una migliore interpretazione dell’”antica dottrina”, venga forzato in funzione di una maggiore attenzione, e quindi di una maggiore apertura, se non di un maggiore adattamento, ai cambiamenti sociali, culturali e, soprattutto, antropologici (e sessuali?) del nostro tempo.
È del resto questa la “novità”, chiamiamola così, portata dal cardinale Fernandez alla guida della Congregazione per la dottrina della fede. Anche se, già dall’Argentina, era il ghost-writer dei maggiori documenti pontifici, e il diretto ispiratore dei tanti passi in avanti compiuti da Francesco sul fronte della dottrina morale. Non solo, ma, sostenuto per altro dallo stesso Bergoglio, Fernandez aveva rivendicato come “magistero autentico” l’interpretazione che, con i vescovi della regione pastorale di Buenos Aires, aveva dato del capitolo VIII dell’Amoris laetitia, sui divorziati risposati che vogliono riaccostarsi alla Chiesa. Fino ad affermare pubblicamente che “il Papa è convinto che quello che ha già scritto e detto non possa essere punito come errore. Dunque, in futuro, tutti potranno rispettare quelle cose senza la paura di ricevere sanzioni”. (Piccolo particolare, molte di quelle cose, scritte e dette dal Papa, erano farina del suo sacco…)
Arrivato in Vaticano, pur nei pochi mesi da che è prefetto del dicastero dottrinale, Fernandez ha impresso una forte spinta al pontificato di Bergoglio – diventandone l’elemento che più lo caratterizza ma anche che più lo condiziona – nel segno della discontinuità con il magistero dei predecessori. Nella terza risposta ai “Dubia” (la firma è sempre del Papa ma è sempre lui l’autore) ha definito la “dichiarazione definitiva” fatta da Giovanni Paolo II, sulla impossibilità di conferire il sacerdozio alle donne, una formula sempre valida ma ancora da sviluppare “esaustivamente”, come dire che potrebbe essere cambiata; mentre, per la verità, papa Wojtyla aveva parlato di dottrina insegnata infallibilmente dal magistero ordinario e universale.
Qualche maligno, che nel mondo ecclesiastico non manca mai, comincia a parlare di “delirio d’onnipotenza”…
E adesso, il documento che dà il via libera alla benedizione anche di coppie irregolari o dello stesso sesso. L’autorevolezza che vorrebbe avere, con quella tipologia così pomposa, così impegnativa, appunto di “Dichiarazione”, fa pensare a un tentativo di frenare analoghi progetti da parte di singole Conferenze episcopali o di diocesi, come già stavano pensando di fare in Olanda e in Germania. Non per niente, più di una volta, si ripete la raccomandazione di non attivare “procedure o riti per ogni genere di questioni”. E, proprio per questo, non si capisce perché la Congregazione si sia comportata come il Sant’Offizio di una volta. Sono stati consultati degli esperti, se ne è discusso nel Congresso della sezione dottrinale, ma ignorando completamente i vescovi. Se lo avessero fatto, un minimo di confronto con gli episcopati, si sarebbero forse risparmiati quella rovinosa marea di proteste che s’è messa in movimento dall’Africa all’Europa orientale.
Ma poi, quel che soprattutto colpisce, è il percorso che la “Dichiarazione” segue pur di arrivare all’obiettivo prestabilito. Un percorso tortuoso, strumentale, se non addirittura manipolatorio, per il fatto che si intuisce continuamente lo sforzo di piegare ogni argomento, ogni riflessione, in quella determinata prospettiva. Ci si addentra in una interminabile rilettura della storia del cristianesimo, cercando di “trovare” a ogni passo un accenno, un riferimento alle benedizioni. Ed è qui che si fa una scoperta clamorosa, scioccante. Si scrive: “…abbiamo bisogno di lasciarci illuminare anzitutto dalla voce della Sacra Scrittura”. Ma, guarda caso!, si salta completamente la Genesi, il racconto della Creazione. “…maschio e femmina li creò./ Li benedisse con queste parole:/ ‘Siate fecondi, diventate numerosi,/ popolate la terra…’.”
Chiaro che partire da lì, riproponendo l’ideale del matrimonio cristiano, l’uomo e la donna nella loro unione feconda e nella loro complementarietà, si sarebbe corso il rischio di dispiacere ai veri “destinatari”. Perciò, si parte dal libro dei Numeri, attraversando il Vecchio Testamento, il Nuovo, per poi considerare il valore di un approccio maggiormente pastorale delle benedizioni. E qui, c’è molto di papa Francesco, dei suoi discorsi. C’è molto della pietà popolare, e delle tante espressioni in cui essa si manifesta, come l’imbattersi per strada in un sacerdote, oppure i riti di benedizione per le persone: anziani, malati partecipanti alla catechesi o a un incontro di preghiera. “Tali benedizioni sono rivolte a tutti, nessuno ne può essere escluso”.
Da qui, ovviamente, era più facile compiere il grande salto. “Nell’orizzonte qui delineato si colloca la possibilità di benedizioni di coppie in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso”. Si precisa che non si deve né promuovere né prevedere un rituale apposta per queste coppie; ma, si aggiunge immediatamente per timore di eventuali incomprensioni, “non si deve neppure impedire o proibire la vicinanza della Chiesa ad ogni situazione in cui si chieda l’aiuto di Dio attraverso una semplice benedizione”. Si afferma che questo tipo di benedizioni non devono diventare una “norma”; ma, nello stesso tempo, si auspica che la sensibilità pastorale dei sacerdoti venga educata ad “eseguire spontaneamente benedizioni che non si trovano nel Benedizionale”. E questo non è più che un “normare” un gesto, una pratica?
Alla fine, c’è un punto che, se già non fosse ai limiti del grottesco, potrebbe suonare addirittura come un atteggiamento offensivo, se non discriminatorio, proprio nei confronti delle persone che si vorrebbe far avvicinare alla Chiesa. Ed è là dove si dichiara che questa benedizione, a coppie irregolari o dello stesso sesso, “mai verrà svolta contestualmente ai riti civili di unione e nemmeno in relazione a essi”, e, attenti!, “neanche con degli abiti, gesti o parole proprie di un matrimonio”.
Ma il peggio arriva con il nuovo anno. Il 4 gennaio, la Congregazione per la dottrina della fede emette un proprio “comunicato stampa”. Cinque pagine per spiegare meglio le sette pagine della Fiducia supplicans. Da un lato, e con un tono tra lo stizzito e il supponente, si tenta di smontare le critiche: non possono essere interpretate come un’”opposizione dottrinale”, il documento è “chiaro”, e bisogna dare il “dovuto rispetto” a un testo firmato e approvato dal Papa. Dall’altro lato, si cerca di fare qualche passo indietro, ma con una pochezza evangelica che impressiona: le benedizioni pastorali “debbono essere soprattutto molto brevi”, “si tratta di 10 o 15 secondi”. La misericordia, evidentemente, ha tempi stretti…
Per quanto potrà sembrare paradossale, questo spiega, più di tanti commenti, il senso ultimo di un documento sbagliato nella forma ma più ancora nella sostanza. Forse, anzi, un documento inutile. Ci ha sempre pensato, e continuerà a pensarci Dio, a entrare nella coscienza di donne e di uomini che vogliano, sinceramente, riavvicinarsi a Lui.