Un’ipoteca propriamente esistenziale grava sul Medioriente, sull’Europa, sull’intero ordinamento internazionale.
Eppure va facendosi strada una generale sindrome da frustrazione, assuefazione, distrazione, rispetto a situazioni che non riusciamo più ad analizzare, né ad interiorizzare.Fatichiamo a renderci conto che i conflitti in Ucraina, in Medioriente, avvengono in casa nostra, hanno cioè un significato e una portata che riguardano direttamente il nostro futuro.
Vano è sperare in un effetto terapeutico, che ci risvegli dal lungo sonno nel quale ci siamo adagiati? “In bello silent leges”, diceva Cicerone. Non può però andare in letargo anche l’introspezione. In un mondo diventato intricato ma affatto illeggibile, prevale l’istinto primario del rifugio in se stessi. Dovremmo invece tornare a ragionare, ma non sappiamo più come si fa.
V’è da sperare che le notizie sul ‘tramonto dell’Occidente’ siano anche questa volta premature, purché non se ne perda la coscienza. Ormai riluttante ad esporsi ultra vires per rimediare alle lacerazioni internazionali, disilluso dalle sue ‘operazioni di pace’, l’Occidente non deve tuttavia rinunciare ad incidere sul corso degli avvenimenti. Se non altro, in difesa dei suoi stessi interessi.
Raymond Aron ricordava che i diplomatici e i generali sono i dioscuri della politica estera (nell’antica mitologia, Castore era appunto domatore di cavalli, mentre Polluce si distingueva nel pugilato). Ambedue necessari anche all’Europa unita, nel momento in cui la fine della ’pax americana’, per un intero secolo la spina dorsale dell’Occidente, rischia di condannarla all’irrilevanza.
In termini diplomatici, in Ucraina è soprattutto l’Europa che dovrebbe esporsi maggiormente per fornire a Putin una via d’uscita dall’imbuto nel quale si è cacciato; in Medioriente, per intercedere nel riprendere la strada tracciata trent’anni fa a Oslo. Opponendosi agli atteggiamenti da ‘delenda Cartago’ che Russia e Hamas ostentano nei confronti dell’Ucraina e di Israele. Nell’asserita indisponibilità, in ambedue i casi, a convivere fianco a fianco.
Al contempo, sul piano interno, andrà assicurata la coerenza dei nostri sistemi democratici. La democrazia, si sa, è un meccanismo sofisticato, che si regge non sul rigore di una superiore autorità ma, come diceva Renan, sul ‘plebiscito di ogni giorno’. Puntuale grillo parlante, Sergio Fabbrini afferma che “dopo le due guerre in corso, difficilmente il mondo sarà come prima, mentre come prima continueranno ad esserlo le democrazie”. Da ricomporre semmai in quel governo degli ottimati che Platone e Aristotele indicavano come l’unico antidoto alla tirannia.
Il concorso dei nostri elettorati, necessario per tenere dritta la barra, non può prescindere dal recupero della direzione verso la quale l’Europa fidava di essersi incamminata dopo la caduta del Muro. Con l’indispensabile forza trainante di alcuni Stati-guida: oltre a Germania e Francia, l’Italia assieme alla Spagna e alla rediviva Polonia?
Necessario è pertanto tornare a narrare, a rievocare il cammino percorso e tracciare quello da intraprendere. Non soltanto fra di noi, a livello nazionale ed europeo, ma anche, soprattutto, nei confronti del mondo circostante, nell’ambito del G20 che si vorrebbe motore di una solidarietà mondiale, e verso quel ‘Sud globale’ che si teme possa soccombere alle sirene russe e cinesi. L’appropriato collegamento fra esigenze di sicurezza e aspirazioni al benessere dovrà sottrarli all’instabilità interna, e ai relativi effetti sovversivi e terroristici.
Ad evitare il perpetuarsi della grande frammentazione globale, Piero Fassino, che di Storia ne ha vissuta tanta-sottolinea “l’esigenza di attraversare questo tempo nuovo con una riflessione a più voci e a più livelli; un incontro di diverse discipline, una pluralità di competenze e sensibilità che però aiutino a superare la cacofonia del presente, riscoprendo il suono difficile della complessità”.
È sul coinvolgimento, storicamente inedito, della Cina nella governabilità globale che dovremmo puntare. Recuperandola in quel ruolo che lo status di membro permanente del Consiglio di Sicurezza comporta, alleviando il carico di responsabilità che l’America non intende più sostenere, e al quale la Russia dimostra di volersi sottrarre.
Purtroppo, diversamente dagli altri momenti-cerniera di questo dopoguerra, l’Italia non ‘s’è desta’. Anzi, si sfalda. Perde il senso della propria identità passata e presente, della propria precisa collocazione in un mondo in radicale trasformazione, Dimostra di non sapersi dotare del centro di gravità nel quale consiste l’interesse nazionale.
Per una consistente, ma tenace e alquanto vocale, nostra minoranza, quel che succede in Ucraina è la conseguenza dell’aggressività della NATO; in Medioriente, dell’intransigenza di Israele. Anche prescindendo dalla forzatura logica, in ambedue i casi, non ci si preoccupa di discernerne le diverse componenti.
Né, in materia finanziaria e di immigrazione, ci si dedica a calibrare il nostro rapporto con l’Unione. A caccia di voti purchessia, senza argomenti appropriati, lasciando allo sbaraglio i sovrano-populisti della più varia estrazione, al proscenio della commedia dell’arte nella quale continua a consistere la politica nazionale.
Un paradiso perduto, quello ipotizzato alla caduta del Muro? Non se alcuni, in una novella arca, sapranno preservare il patrimonio che l’Occidente ha accumulato nei secoli. “Per fare l’Europa –diceva il grande Alberto Savinio nel 1944- solo un’Idea potrà unire. Idea: questa ‘cosa umana ’per eccellenza”. Consistente nella capacità di immaginare il futuro; nella quale il diplomatico per eccellenza Roberto Ducci individuava la qualità principale della professione diplomatica.
Vana sarà l’attesa di un novello ‘deus ex machina’, già propostosi sotto le molteplici sembianze di Putin, Xi, Erdogan, Trump o Milei, piuttosto che dedicarci alla ricostruzione di meccanismi multilaterali, il cui compito istituzionale rimane quello di stabilizzare e dare impulso al cammino dell’umanità. È in tale ambito che le linee politiche di fondo, strategiche, andranno identificate ed elaborate in comune, da una classe dirigente in grado di rivelarsi tale.
Nella consapevolezza che i conflitti, di spettanza dei militari, rimarranno degli stati di fatto, ricorrenti ma statici; mentre la pace, affidata ai diplomatici, è un processo, dinamico, accumulativo. Responsabilità che non si escludono a vicenda. Tutt’altro.
“Viandante, non esiste un cammino: lo si fa camminando”, diceva Antonio Machado.