“In bello silent leges”, ammoniva Cicerone. Al punto che lo stesso diritto umanitario, lo ‘jus in bello’, fatica ad aprirsi un varco.
In Medioriente come in Ucraina, la situazione è andata fuori controllo tanto fra contendenti quanto per l’intera comunità internazionale che, divisa sul da farsi, non sembra poter far altro che assistere sbigottita a quanto sta avvenendo.
Una regione, quella mediorientale, dove in questo dopoguerra una progressiva pulizia etnica ha distrutto il pluralismo etnico che da millenni ne aveva fatto il crogiuolo della nostra civiltà. Non di sola sopravvivenza di Israele si tratta quindi, ma dell’intero impianto storico che ci ha generato.
Israele (con il martoriato Libano) è rimasto l’ultimo lembo dell’antico impero ottomano ad aver conservato la sua molteplice identità. Israele può esserne considerato come l’ultimo tassello, che Hamas dichiara di voler eliminare. Un esito che coinvolgerebbe gli stessi autoctoni cristiani, le cui Chiese orientali sono martoriate da decenni nella generale rassegnazione.
Indiscutibile è il diritto all’autodifesa nei confronti di un avversario che vuole la tua distruzione e si comporta conseguentemente. In un Mondo arabo che rimane avaro di iniziative politiche condivise, in cui non esistono più schieramenti né solidarietà, in un ognun-per-sé che riemerge nei momenti più drammatici.
In quel che è diventato per tutti un labirinto, i palestinesi hanno perso il sostegno dei loro fratelli arabi; l’Arabia saudita deve vedersela con le ambizioni dei vicini non arabi, iraniani e turchi; il Qatar gioca su tutti i tavoli, finanzia Hamas, ospita una base americana, oltre a gestire una rete televisiva di irradiazione mondiale; l’Egitto e la Giordania hanno rinunciato al coinvolgimento nei loro antichi territori, rispettivamente a Gaza e in Cisgiordania; il Libano, disintegrato, è diventato roccaforte di Hezbollah.
Tale frammentazione potrebbe paradossalmente scongiurare il rischio di una più vasta deflagrazione; stanno però saltando le norme basilari della convivenza internazionale. Con la soddisfazione di quanti, come la Russia di Putin (che accoglie spudoratamente Hamas), ritengono di potersene avvantaggiare, o si illudono, come la Turchia di Erdogan, di potersi presentare come ‘deus ex machina’.
La contrapposizione dei risentimenti per le rispettive colpe storiche, ripresa con particolare virulenza, non può condurre che al radicamento della crisi. Mentre la via d’uscita deve consistere nell’andare oltre, guardare avanti. L’oggetto primario dell’attenzione della comunità internazionale dovrebbe essere come rimediare alla spaccatura fra Hamas e l’Autorità nazionale palestinese, che ne compromette la funzione di interlocutore negoziale.
Bisogna tuttavia ammettere che il rapporto fra Israele e i rappresentanti della Palestina è viziato anche dal fatto che nessuno dei due dispone di una identità nazionale chiaramente definita. Il che impedisce quell’individuazione e affermazione dei rispettivi interessi nazionali, che costituisce la premessa indispensabile di ogni negoziato.
Ancora una volta, dobbiamo per ora constatare quanto il terrorismo riesca a turbare l’Occidente, per la maggior soddisfazione dei suoi antagonisti. Anche da noi, le manifestazioni popolari si astengono dal denunciare le efferatezze di Hamas, al pari delle Risoluzioni presentate alle Nazioni Unite. Il che si risolve in preoccupanti rigurgiti di antisemitismo. A scapito, anch’essi, se non altro delle possibilità di influenza esterna su Israele, irrigidito nelle prioritarie sue esigenze di sicurezza.
Ancora una volta l’Europa che, equilibrando il sostegno americano a Israele, ha sempre parteggiato per i palestinesi (fu il Consiglio europeo svoltosi a Venezia nel 1980 a riconoscere l’OLP quale legittimo interlocutore negoziale), si esprime disordinatamente a Bruxelles e all’ONU, mentre dovrebbe proporsi più decisamente con una propria politica mediterranea complessiva e coerente, non ridotta alla sola questione migratoria.
Il Patriarca vaticano di Gerusalemme, ora Cardinale, Pierbattista Pizzaballa, ha da tempo osservato che “in ragione dei fallimenti degli accordi precedenti, bisognerebbe pensare non tanto a soluzioni ideali, quanto ad avviare processi che tengano conto di quei fallimenti…Lavorare sul lungo periodo senza pensare a soluzioni immediate… Una mediazione esterna sarà necessaria, ma nessuna soluzione potrà essere imposta da fuori; non funzionerebbe… Urge invece che le due parti si decidano e accettino prima di tutto di parlarsi”.