Tra ripiego e missione

di 2 Settembre 2023

Se la condizione dei docenti non muta

Attualità, permanenza e inattualità di un tema, ad apertura d’anno sempre lì, ancora lì: la condizione degli insegnanti. Tra mutamenti anche profondi delle modalità di lavoro (una per tutte: l’irruzione delle nuove tecnologie) e sostanziali invarianze da un decennio all’altro: le retribuzioni inadeguate, l’erodersi del riconoscimento sociale, la diffusa precarietà e instabilità (un anno in un posto e l’anno dopo da un’altra parte, ogni anno in attesa delle graduatorie, delle “call”, dell’incarico). Sempre di stretta attualità, con nuove-vecchie figure che si affacciano sulla scena (i tutor e gli orientatori) e con qualche titolo di giornale dedicato a chi dal Sud non ha inteso recarsi al Nord per insegnare, visti i bassi stipendi al cospetto degli esorbitanti affitti delle case. Eterno problema irrisolto, tale condizione, in una scuola pur attraversata in un sessantennio da non poche riforme: la scuola media unica, i “decreti delegati”, l’autonomia, la riforma Moratti, la Gelmini, la “buona scuola” di Renzi, per non dire di mini e maxi sperimentazioni, di riforme parziali (recentissima quella dei professionali), di tentativi surreali (qualcuno rammenta ancora l’epoca delle discussioni sulla “qualità totale”?).

Persino eccesso di movimento e accanimento riformistico da un lato (quanto utile, efficace, buono e giusto è una diversa questione), morta gora, stasi, palude pressoché immobile dall’altro.

Tanto che sembrano scritte oggi le parole lontane di un geniale scrittore italiano di cui l’editore Feltrinelli ha meritoriamente da poco ripubblicato, per la prima volta in un unico volume, la cosiddetta “trilogia della rabbia”, una pungente, irsuta, irriverente, ironica, dissacrante spina nel fianco del miracolo economico, qui vissuto nella carne di un uomo disilluso.

“Bracciantato intellettuale” viene definito da Luciano Bianciardi nel 1957 il lavoro degli insegnanti (Il lavoro culturale, Feltrinelli, 1957, 1ª edizione, oggi in Trilogia della rabbia, 2022), una definizione che fa il paio con quella, probabilmente più in uso, di proletariato intellettuale, ma che viene a dire la medesima cosa, senza neppure aver bisogno di troppe spiegazioni:

“Anche nella nostra città, come in tutta Italia, gli insegnanti di scuola media erano, per il settanta per cento, avventizi, cioè non avevano un posto stabile, conquistato dopo regolare concorso […]. E così ogni anno, appena finita la scuola, dovevano presentare la domanda per l’anno successivo, producendo insieme i documenti di rito ed i titoli validi per entrare e piazzarsi in graduatoria […]. Era come giocare al poker: qualcuno ce la faceva, qualche altro, meno forte di nervi, ‘vedeva’ subito, oppure gli veniva l’esaurimento nervoso prima ancora che fosse cominciato l’anno scolastico. Così, quando era tempo di graduatorie, gli insegnanti della nostra città, come del resto quelli di tutta Italia, vivevano ore e giorni d’inferno. […] Era ogni anno la stessa storia. Uomini di quarant’anni, con moglie e figli grandi, non erano ancora entrati in ruolo, anche perché il ministero bandiva i concorsi a ogni morte di papa, ed offriva settecento posti a ventimila candidati. Gli altri diciannovemila e passa dovevano continuare a cercarsi il lavoro stagione per stagione”.

Insomma, dopo oltre sessant’anni, ancora “qui è Rodi” e da qui bisogna passare, perché è in misura importante qui e non altrove che si gioca il destino della scuola in Italia. La “buona scuola” non è fatta dai tanti accessori accidentali con cui troppe volte si è sterilmente baloccato, per anni, il riformismo all’italiana, bensì (e innanzitutto) dai buoni insegnanti, con gli inevitabili corollari della loro formazione e selezione e insieme, inscindibilmente insieme, della loro dignità sociale.

Far sì che questa professione possa diventare appetibile (in primo luogo per retribuzione e riconoscimento pubblico della funzione svolta), ecco un meritevole impegno di governo per chi voglia davvero proporsi il compito di migliorare la scuola.

E liberare, contemporaneamente, il lavoro di insegnante dalla Scilla del ripiego in mancanza di meglio (e ci sarebbero da produrre statistiche su questo tipo di scelta, sempre buona per una pensione sicura) e dalla Cariddi del lavoro da svolgere perché è una missione, motivazione perfetta per giustificare i bassi salari e una condizione di paria tra le professioni intellettuali (se qualcosa si fa per missione alla fine bisogna essere disposti ad accettare pressoché tutto). Lunga è la strada, ma prima o poi bisognerà cominciare seriamente a percorrerla.

Facebook Comments Box

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

« »