Pur rinviando l’ammissione dell’Ucraina alle calende greche della conclusione del conflitto in corso, l’annuale Vertice della NATO ha confermato la sua funzione di istituzione-cardine dello schieramento occidentale.
Oltre ad articolare meglio il proprio sostegno, politico quanto militare, a Kiev, l’alleanza atlantica ha infatti consolidato la propria coesione interna, riassorbendo persino le obiezioni di Ankara all’adesione della Svezia.
Un esito che nell’immediato non mancherà di irrigidire il Cremlino, che sulle divisioni in ambito alleato faceva affidamento, ma ne restringe la via d’uscita dall’avventura ucraina. Si dovrebbe piuttosto ritenere che un movimento tettonico vada finalmente modificando i termini di riferimento sui quali Mosca riteneva di poter contare. Escludendo quel più diretto coinvolgimento americano che Biden continua a negare tanto a Zelenski quanto a Putin.
La solidarietà con l’Ucraina si consoliderà nell’apposito Consiglio ora messo a sua disposizione nell’ambito dell’Alleanza atlantica. Particolarmente rilevante è il ritorno della Turchia nei ranghi euro-atlantici, dopo aver apparentemente rinunciato al funambolico ruolo di mediatore finora ostentato. Affiancatasi semmai a quegli altri interlocutori esterni, quali l’India, il Brasile, il Sudafrica (la Cina?), che vanno manifestando la loro preoccupazione per la decomposizione del sistema internazionale.
Nelle attuali condizioni di sicurezza continentale, la NATO si conferma inoltre quale involucro di quella ‘autonomia strategica europea’ invocata da Macron, che rimane da sviluppare. Puntellata anche dalle ‘garanzie di sicurezza’ offerte dal G7, su iniziativa di un Regno Unito uscito dall’UE ma non dallo schieramento euro-atlantico. Tutt’altro.
È su tale nuovo versante dei rapporti internazionali che l’attenzione dell’Italia dovrebbe pertanto concentrarsi. “L’arma più importante è la coesione politica”, ha detto il nostro Primo Ministro, nell’attirare l’attenzione sulle esigenze, anche immigratorie, del fianco sud dell’alleanza.
Eppure, nell’opinione pubblica quanto nei ranghi parlamentari, la sola Italia rimane apparentemente alle prese con la sua solita esitante ‘equivicinanza’, che la esclude dalla compartecipazione alle decisioni di ordine strategico che le circostanze internazionali tornano a imporre.
I distinguo e le esitazioni dei nostri governi di coalizione traballanti, sull’insieme delle incombenti questioni di sicurezza economica e militare, finiscono con l’emarginarci da quella solidarietà che pretendiamo invece a gran voce anche in ambito europeo. Che deve potersi ormai avvalere della forza propulsiva di un gruppo di nazioni trainanti, presumibilmente quelle che originariamente firmarono i Trattati di Roma.
I due del tandem franco-tedesco non sono mossi, lo abbiamo constatato in molte occasioni, dalle medesime ambizioni, ma si presentano come complementari. Bisognosi peraltro entrambi di una sponda esterna, che in passato l’Italia ha più volte dimostrato di saper fornire. Il ‘Trattato del Quirinale’ fra Parigi e Roma, non si differenzia nelle intenzioni politiche e nella struttura da quelli dell’Eliseo e di Aquisgrana fra Parigi e Bonn, poi Berlino. Indipendentemente dalla loro attuazione letterale, si tratta di atti formali che fissano un rapporto strategico, da calibrare a seconda delle specifiche circostanze.
L’Italia continua ad aver bisogno dei puntelli strategici esterni di cui si è avvalsa in questo intero dopoguerra. Che non sono però più univoci. Alla cui migliore definizione dobbiamo pertanto deciderci a contribuire.