Periodicamente, la Francia esplode. Dai tempi della Bastiglia, durante l’intero Ottocento, fino al Sessantotto, e poi ai Gilet gialli, al rifiuto dell’innalzamento dell’età pensionistica, e ora all’ennesima reazione all’uccisone di un giovane di estrazione maghrebina. Fiammate improvvise che, se si risolvono presto, lasciano pur sempre una scia di sordi risentimenti.
Al giorno d’oggi, se ne attribuiscono le cause alla condizione di periferie degradate, mentre andrebbero riferite piuttosto allo sfogo di masse non più orientate da strutture politiche adeguatamente strutturate. In un mondo inesorabilmente globalizzato che ha disseccato le ideologie, tanto di destra che di sinistra, lasciando il campo libero agli opposti sommari populismi. Una condizione alla quale la comparsa di Macron, novello Obama, ha tentato di rimediare; con risultati purtroppo non dissimili.
Cocteau diceva che i francesi, in sostanza, sono degli italiani di cattivo umore. Irreggimentati come sono in una nazione che, da Clodoveo a Luigi XIV, a Napoleone I e III, si è affidata a un potere centralizzato che il semi-presidenzialismo di De Gaulle ha infine costituzionalizzato. Una genesi che la differenzia dalla Germania e dall’Italia, storicamente anche se diversamente frammentate.
Dichiaratamente ‘repubblicana’, patria della ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino’, tradizionale terra di asilo che ha perciò sempre negato l’esistenza di minoranze interne, la Francia si scopre improvvisamente ‘normale’. Per l’asserita discriminazione di alcuni cittadini, che faticano piuttosto a integrarsi in quel modello di nazione che l’etnologo Renan definiva “plebiscito di tutti i giorni”.
Ne consegue la necessità per Macron di trovare sponde all’ambizione, anche per motivi di politica interna, di porsi all’avanguardia di un processo di emancipazione europeo. Anche la Francia è ormai consapevole di quanto le esigenze complessive di sicurezza, tanto economiche quanto militari, non possano più essere assicurate che da aggregazioni inter-nazionali. Il Consiglio europeo appena conclusosi lo ha sostanzialmente ripetuto.
Confermando peraltro quanto proprio la questione immigratoria costituisca la principale pietra d’inciampo non soltanto sul cammino del processo d’integrazione europeo, ma per la stessa immagine esterna dell’Unione. Che l’Unione possa limitarsi ad imporre una somma in denaro per ogni rifiuto di ricollocare un immigrato in provenienza dall’Italia, riproduce il mercanteggiamento concluso con la Turchia (e, in prospettiva, con la Tunisia), limitandosi in sostanza a considerate l’Italia al pari di un paese di transito.
Trascurando l’esigenza primaria di affrontare invece la questione alla sua origine, nella coerente connessione dei suoi vari strumenti, tanto comunitari quanto intergovernativi. Riattivando quei suoi programmi di assistenza allo sviluppo che Russia e Cina, con le loro iniziative di indiscriminato inserimento, hanno svuotato. Ricollocando la questione nell’ambito della politica estera comune, invece di affrontarla con meri strumenti di tecnica amministrativa.
Palese è infatti quanto la credibilità politica dell’Unione, e l’influenza internazionale che ne consegue, continui a dipendere dalla coerenza dell’insieme delle sue varie articolazioni istituzionali. È su tali basi che andrebbe pertanto impostata sin d’ora la campagna elettorale per l’appuntamento europeo dell’anno prossimo. Ben al di là delle tattiche delle coalizioni partitiche spurie che si vanno già delineando.
È oltre tale appuntamento che in particolare l’Italia dovrebbe guardare, decidendosi non già a cercare alleati di comodo su questioni di stretto interesse nazionale, bensì per tornare ad assumere il ruolo trainante delle origini dell’impresa comunitaria.
Il che fornirebbe anche a Parigi (e a Berlino) quel puntello esterno del quale ambedue e l’intera costruzione europea palesemente necessitano per far fronte, anche a fini interni, alle sfide internazionali del momento.