È di Russia che ormai si tratta, non soltanto di Ucraina. Non che la situazione si sia chiarita, ma un tarlo ha iniziato a corrodere la monoliticità al Cremlino. Non ancora una resa dei conti, un ‘redde rationem’, ma una plausibile iniziale lettura degli eventi in corso potrebbe essere già possibile.
La ribellione del capo del ‘Gruppo Wagner’, innescata dalla prospettiva del suo assorbimento nell’esercito regolare, potrebbe esser stata rivolta a fornire a Putin una via d’uscita dall’imbuto nel quale si è cacciato, attribuendo all’incompetenza dei suoi collaboratori non soltanto lo stallo delle operazioni militari, ma la stessa loro originaria pretestuosa motivazione.
Esasperato dalla mancata rispondenza ai suoi ripetuti solleciti, Prigozhin si sarebbe deciso a sfidarlo nell’esibire la popolarità delle sue ragioni in una plateale ‘marcia su Mosca’, accolta da una popolazione festante. Una marcia che, altrettanto platealmente interrotta, ha comunque squarciato il velo della sopravvenuta inconsistenza di quel ‘divide et impera’ sul quale si è sinora retto il regime di Putin, fra oligarchi, servizi ed esercito.
Ancora una volta, è quest’ultimo pilastro ad aver ceduto. Come nel ’17, nel ’62 a Cuba, nel ’89 in Afghanistan, con le conseguenti destituzioni degli ‘zar’ dell’epoca.
Del ‘gruppo Wagner’, Putin si è avvalso per anni per conquistare posizioni, dai soldati senza insegne nel Donbas nel 2014 alla Crimea, alla Siria alla Libia al Mali, senza intestarsene la diretta responsabilità. Fornendo anzi all’Occidente il pretesto per non lasciarsi coinvolgere. (Incomprensibile anche in tale contesto, il progettato scioglimento del corpo di mercenari).
Dopo il fallimento della ‘operazione militare speciale’ in Ucraina, è a quei mercenari, piuttosto che ai meno motivati regolari militari di leva, che sono state affidate le operazioni più rischiose e devastanti, come quella a Bakhmut. Una separazione che la ribellione di
Prigozhin ha dichiarato non più sostenibile, atteggiandosi a eroe abbandonato a sé stesso. Da un gioco delle parti (da rilevare, per inciso, che né Shoigu né Prigozhin possono vantare un curriculum militare), il rapporto si è così trasformato in una messa in mora del Cremlino.
Se non di golpe si può ancora parlare, la sceneggiata di Prigozhin può essere pertanto servita a innescare una scossa nelle segrete stanze del Cremlino. Che ciò si ripercuota nei rapporti di forza interni, con un cambio di regime, oppure in un suo irrigidimento, saranno i fatti a rivelarlo.
La guerra in Ucraina ha perso quella compattezza di propositi che ogni conflitto dovrebbe ostentare. Evidente è che, saltati gli equilibrismi interni ai quali Putin è ricorso finora, il nodo scorsoio attorno all’Ucraina si allenterà. Collocandola ancor più chiaramente nello schieramento occidentale.
Il che coinvolge la stessa strategia dell’Occidente euro-americano, consentendo un rafforzamento dei legami dell’Ucraina con UE e NATO, indipendentemente dalle soluzioni istituzionali. Gli imminenti vertici di ambedue le organizzazioni dovranno fornire i necessari supplementari elementi di giudizio.
Mentre la Russia rimane alle prese con il suo perenne dilemma fra occidentalisti e slavofili. È ai posteri, non all’Occidente, che, come sempre in Russia, spetterà l’ardua sentenza.