La Storia insegna che vi sono due modi di affrontarne le sfide: la ragione o l’emozione. Un dilemma che si traduce nell’alternativa fra libertà e sicurezza, fra autodeterminazione e sottomissione. Lo descrisse già, nel lontano Cinquecento, La Boétie nel suo “Della servitù volontaria”.
Istintiva, nell’attuale momento di transizione internazionale dall’esito alquanto incerto, deve pertanto considerarsi la propensione dell’elettore ad assoggettarsi ad un’autorità superiore. L’ossimoro di una ‘democrazia sovrana’ si afferma non soltanto in Russia e Cina, ma anche in Ungheria e Turchia. La Turchia, che ha confermato Erdogan.
Nelle attuali condizioni di globalizzazione, la sovranità non dovrebbe più consistere nell’affermazione della pretesa volontà nazionale, dipendendo invece più che mai dall’interscambio, dalla collaborazione. La democrazia, lo diceva Tocqueville, non deriva da maggioranze elettorali, consistendo invece in partecipazione, e nel conseguente rispetto e coinvolgimento delle minoranze.
E’ come se l’esito delle elezioni in Turchia avesse confermato che, al pari della Russia di Putin, la Turchia ritenesse di non appartenere all’Europa. Collocata geo-politicamente sull’antico cardine fra occidente e oriente, ridimensionata un secolo fa dal crollo del suo impero, inserita poi da Truman nello schieramento occidentale della NATO, è come se ritenesse oggi di potersene liberare, nell’illusione di recuperare una propria diversa funzione e identità.
In una politica estera originariamente proiettata a trecentosessanta gradi, Erdogan aveva dapprima proposto alle ‘primavere arabe’ il modello laico di Ataturk; si era anche esposto, in competizione con Russia e Cina, nel Caucaso e nei paesi di lingua turchica dell’Asia Centrale; schierandosi con i Fratelli musulmani in Egitto e poi in Libia; irrisolti rimangono invece i suoi rapporti, anche in ambito NATO, con la Grecia, da troppo tempo avvelenati dall’irrisolta occupazione di Cipro settentrionale e dalle pretese sul Mare Egeo. (Una Grecia emersa dalla pari conferma elettorale di Mitsotakis).
Bisognerebbe quindi sperare che l’aspirante neo-sultano si liberi dell’illusione di potersi rivelare determinante nella vasta instabile area circostante, avvalendosi invece dell’ottenuta conferma elettorale, sia pure di misura, per mettere finalmente ordine nel proprio programma politico ed economico, rendendolo più coerente sul piano interno e internazionale. Liberando la società civile di una nazione plurietnica e multireligiosa del cappio che le ha incomprensibilmente imposto.
L’Unione europea (e l’Italia) dovrebbero incoraggiarlo in tal senso. “Insieme –lo ha esortato Giorgia Meloni- possiamo fare di più”.
Tanto più che anche la situazione nei Balcani, troppo a lungo trascurata, è tornata ad infiammarsi.