Sia pur diversamente, Russia e Cina approfittano della ‘distrazione’ ucraina per piazzare alcuni ‘segnaposto’ altrove. Ma, se la comune dichiarata strategia consiste nel rimettere in discussione l’ordinamento internazionale, radicalmente diverse appaiono le rispettive tattiche, conflittuale l’una, competitiva invece l’altra.
Dovrebbe essere ormai chiaro che non di sola Ucraina si tratta. Né delle sole sue ripercussioni sul sistema dei rapporti, politici ed economici, internazionali. Bensì del deliberato, esplicito proposito di uno dei maggiori protagonisti sulla scena mondiale di disfarne l’intero ordinamento.
Dal Cremlino, per bocca dell’ormai dissennato Medvedev, provengono minacce di rinnovata conquista militare di Berlino, persino di inabissamento delle isole britanniche ad opera di salve di missili russi (sic!). All’altro mercenario Prigozhin, viene consentito di operare in apparente autonomia persino nelle principali crisi regionali, libica, maliana, sudanese, per esasperarne le condizioni.
Se ne potrebbe dedurre che, mentre Putin esaspera il sistema vigente, violandone i principi e le regole, Xi dovrebbe rivelarsi conseguentemente più sensibile alle ripetute esortazioni, rivoltegli dai tempi dell’obamiano ‘pivot to Asia’, di contribuire responsabilmente a salvaguardarne le fondamenta.
Al proprio attivo, Pechino può iscrivere la dichiarata disponibilità a ristrutturare i debiti contratti dai paesi destinatari della sua ‘Via della seta’, quanto la sua mediazione nel riavvicinamento fra Iran e Arabia Saudita.
Mosca punta invece sul conquistare posizioni in altre zone strategicamente cruciali, dal Mali alla Libia, e ora al Sudan. Una cerniera strategica, quest’ultima, dove i soliti mercenari del Gruppo Wagner fiancheggiano i locali signori della guerra, ostacolando ogni prospettiva di riconciliazione nazionale.
Diverso dovrebbe pertanto essere il corrispondente atteggiamento occidentale. Non inopportune sono quindi le peregrinazioni di esponenti europei a Pechino, alla quale si è affiancato il brasiliano Lula (in attesa dell’indiano Modi) che, pur avendo prodotto una qualche cacofonia, possono aver contribuito ad aggirare le strettoie del rapporto sino-americano.
Nella sua consueta foga di pretta marca gallica, il francese Macron ha detto che “non dovremmo essere coinvolti in crisi che non sono le nostre”, lanciando un segnale che non si discosta dai suoi precedenti pronunciamenti, sulla ‘morte cerebrale’ della NATO, sull’esigenza di un ‘dialogo esigente’ con la Russia, sulle responsabilità dei paesi del Sahel, espressi tutti a scopo esortativo piuttosto che offensivo. Attorno ai quali gli altri europei tardano però a coagularsi, inducendo la Von der Leyen ad esprimersi più nettamente per mantenere l’attracco agli USA, che rimane essenziale.
Altrettanto essenziale per l’Unione europea appare infatti ormai l’esigenza di districarsi dal confronto triangolare fra le altre potenze di dimensioni continentali, America, Cina e Russia, che va delineandosi all’orizzonte. Proponendosi quale fattore politico oltre che economico, avvalendosi di quel ‘multilateralismo efficace’, basato su regole comuni, sui cui l’Europa si fonda, di cui è rimasta l’unico promotore.
Per non continuare a dipendere dalle decisioni altrui, dovremmo semmai renderle anche nostre. A modo nostro. Un ‘quartetto’ trasversale già esiste e opera, composto da Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e, appunto, Francia, nell’opportuno coordinamento fra le rispettive diverse collocazioni geografiche ed istituzionali.
A esso si affianca un quartetto asiatico, anch’esso in via di perfezionamento, che raggruppa Stati Uniti, Australia, Giappone e India. Scomposizioni di quel G7 che include anche Canada e Italia. E che dovrebbe dimostrarsi più influente nel cerchio esterno del G20, da coinvolgere nei confronti di Russia e Cina.
Quanto all’Italia, paese riluttante a mettere le cose in chiaro; che non ha ancora fatto i conti con il proprio passato; che per decenni ha privilegiato il compromesso fra aggregazioni partitiche di massa; che, per il timore di divisioni interne, non ha mai definito il proprio interesse nazionale né la propria collocazione internazionale; che si rifugia ancora attorno a due nuove ‘grandi coalizioni’ genericamente etichettate di destra e di sinistra; non può sedere né farsi sentire alla tavola dei grandi, dei quali continua pertanto a rimanere passivamente tributaria.
La potenza si misura ancora, purtroppo, in base alle capacità impositive del proprio arsenale militare. Il potere consiste piuttosto nella capacità di incidere nelle decisioni altrui. Al cospetto della triade dei super-potenti, è di potere politico, non di potenza militare, che l’Unione tarda a dotarsi.
Il suo peso specifico continua a dipendere dal convergente concorso alla coerenza d’assieme.