L’attuale incerta transizione internazionale ha prodotto un’epidemia di reazioni difensive, sovraniste, refrattarie al confronto con il mondo circostante. Non bastavano Trump, e poi Putin, Erdogan, Xi, perfino Orban… Ci si è ora messo anche Netanyahu, in un’area da sempre turbolenta che alcuni indizi facevano ritenere finalmente avviata verso un sia pur cauta generale riconciliazione.
Lo stabilimento, quarant’anni fa, di relazioni diplomatiche di Egitto e Giordania con Tel Aviv non era bastato. I recenti ‘accordi di Abramo’ conclusi con i Paesi del Golfo parevano aprire la strada a un generale cambio di passo. Dopo il campanello d’allarme delle ‘primavere arabe’ in situazioni interne diventate insostenibili, accantonata pareva l’asserita estraneità di Israele alla regione, che per decenni aveva costituito l’unico comune denominatore dei suoi vicini.
L’iniziativa, sotto guida saudita, degli Emirati Arabi Uniti, diventati determinanti in virtù delle loro risorse finanziarie, parevano aver liberato il groviglio mediorientale dall’ipoteca palestinese, accantonando al contempo l’antica contrapposizione fra sunniti e sciiti. Tornato al potere, alla testa di una eterodossa coalizione nazionalista, Netanyahu ha però ritenuto di potersi avvalere delle mutate circostanze per blindare il proprio potere, e voltare le spalle all’Autorità palestinese.
Una svolta autoritaria poco conforme alla storia di una nazione tuttora incerta sulla propria identità, non soltanto in termini di equilibri interni, nell’appropriato rapporto fra religione e laicità, ma della sua stessa natura, di nazione del popolo ebraico piuttosto che di società laica eterogenea. Portandone allo scoperto le contraddizioni, con immediati effetti sugli stessi esponenti militari, preoccupati delle possibili ripercussioni sul morale di un esercito che da decenni costituisce la spina dorsale della nazione.
Una nazione che deve emanciparsi delle sue predominanti, seppur fondate, preoccupazioni di sicurezza non può più pensare di corrispondervi arroccandosi intransigentemente, a scapito persino della sua democrazia interna. Dovendo semmai dedicarsi ad aumentare il numero dei propri sostenitori politici e diplomatici. Garantita dagli Stati Uniti dopo l’estromissione di Francia e Regno Unito da Suez nel 1957, ha finora trascurato il possibile contributo di un’Europa dedicatasi poi piuttosto alla causa palestinese. Nella sostanziale indifferenza di entrambi i contendenti.
I tempi sono cambiati. Dopo la fine della Guerra fredda, Washington ha gradualmente spostato dal Mediterraneo al Pacifico il perno della propria strategia. Sia pur diversamente, tanto Obama quanto Trump hanno tentato diversificare la politica mediorientale americana. Di riflesso, la Russia, in Siria, in Libia, ha recuperato alcune sue antiche postazioni; mentre la Cina si è appena prodigata per un riavvicinamento fra Arabia saudita e Iran.
È quindi giunto il momento anche per l’Occidente euro-americano di coordinare più accuratamente la sua politica mediterranea. Si dovrebbe trattare di convergere nel riassorbire le polarizzazioni che caratterizzano in particolar modo il Medioriente, ripercuotendosi sulla società civile israeliana.
Quindi, prioritariamente, di recuperare l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Egitto, in funzione trainante della diplomazia dell’intero mondo arabo. Ad evitare fra l’altro il perpetuarsi delle infiltrazioni poco disinteressate di Russia e Cina in una regione che rimane di primario interesse europeo.