Riflessioni di fine anno
Nell’euforia di un campionato mondiale di calcio che non ci ha visto fra i protagonisti, si conclude un anno pesante, oppresso da una pandemia e da una guerra che non danno segni di voler esaurirsi. Due tragedie che hanno soffocato l’eterna speranza di un’era migliore per l’intera umanità.
In un mondo che la fine della Guerra fredda ha reso ‘piatto’, ci saremmo aspettati una generale convergenza di propositi.
La guerra in Ucraina ha invece evidenziato la paralisi del sistema internazionale. Un trauma che dovrebbe poter aver una funzione ri-costituente.
Due delle cosiddette superpotenze, l’una in declino e l’altra in ascesa, ripropongono, sia pur diversamente, le ragioni dell’antica politica di forza. Approfittando della sopravvenuta riluttanza dell’Occidente a ‘far la guerra’. Un atteggiamento che, per quanto nobile, corrisponde piuttosto ad un’ondata di apatia morale e politica.
In un Occidente al quale si deve la costituzione di un sistema internazionale liberale, collaborativo invece che antagonistico, diffusa è ormai la rassegnazione rispetto all’inefficienza delle organizzazioni internazionali. Rendendoci spettatori impotenti nei confronti di chi, specie la Russia, ne è deliberatamente corresponsabile.
Dovremmo invece insistere nel far valere che, contrariamente a quanti alcuni attori internazionali si ostinano a credere, il potere di uno Stato non consiste, ai giorni nostri, nel territorio di cui dispone, né nel grado di autorità di chi lo governa, bensì nelle connessioni di cui dispone. Alla verticale del potere va sostituendosi, inesorabilmente, l’orizzontalità della sua rete di rapporti con il mondo circostante. Non più, peraltro, in termini di alleanze militari, bensì di partenariati collaborativi.
Mentre il non allineamento ha quindi perso il suo originale significato, la prospettiva da temere è l’emarginazione. Al cospetto della situazione in Ucraina, vanno pertanto moltiplicandosi le prese di distanze da Mosca. Pur astenendosi dal condannare il Cremlino, non prendono le parti di chi sta voltando ostentatamente le spalle alla comunità internazionale. Il cinese Xi nel non andare oltre l’espressione di una generica ‘amicizia’; l’indiano Modi nell’affannarsi a districare quel subcontinente dall’isolamento in cui versa; il turco Erdogan nel destreggiarsi fra le sue varie ambizioni neo-ottomane.
Non possiamo ovviamente pretendere una comunità di valori, bensì la comune presa di coscienza di interessi condivisi, emersi come valore preminente. Se, nelle mutate condizioni internazionali, ciò deve tradursi in opportunismo piuttosto che in convincimento, ben vengano i criteri dell’utilitarismo, che dell’Illuminismo fecero parte integrante.
L’ ‘autonomia strategica’ che, al giorno d’oggi, anche l’Europa sbandiera non deve consistere in contrapposizioni geo-politiche, ma può invece coniugarsi con la convergenza di intenti nella diversità dei singoli contributi.
“Si tratta – ha affermato il Ministro degli esteri indiano – di adottare un approccio di collaborazione fra molteplici partner su agende diverse”.
Spes contra spem.