Le migrazioni di massa che continuano ad attraversare il Mediterraneo resuscitano ricorrentemente quanto vanamente le polemiche che appesantiscono i nostri rapporti con l’Europa.
In particolare con la Francia che, assieme alla Germania (altro paese di preferita destinazione finale degli immigrati), dovremmo invece associare nell’evitare che Bruxelles trascuri la perdurante precaria situazione sul fianco sud dell’Unione. Della quale la crisi migratoria è il sintomo più evidente.
Vero è che le norme internazionali vigenti in materia di soccorso in mare, di asilo a perseguitati politici, di rifugiati da zone di guerra, si riferiscono a situazioni differenziate e casi singoli. Le ondate alle quali siamo da qualche anno confrontati in Europa (e in America) hanno ben diversa origine e consistenza quantitativa e qualitativa.
Le navi delle ong non trasportano naufraghi, bensì raccolgono persone che utilizzano impervi ma ormai collaudati percorsi alla ricerca di migliori condizioni di vita in Occidente. Facilitando un vero e proprio traffico di esseri umani, versione moderna di una più antica tratta.
Affrontare la questione sulla base di mere considerazioni umanitarie, specie nei confronti di donne e bambini non accompagnati che rappresentano comunque una minoranza degli interessati, non può bastare a suscitare l’appropriata impostazione politica, nazionale o europea.
La disordinata loro accoglienza, distribuzione e integrazione non può prescindere da una più organica impostazione complessiva della questione. Non soltanto all’arrivo, in ambito europeo, ma anche alla fonte, con il coinvolgimento dei paesi di provenienza. I quali si dimostrano però restii a collaborare, per i benefici che traggono dall’emigrazione di loro connazionali, in termini di riduzione della pressione demografica e di rimesse finanziarie.
I programmi di ‘assistenza allo sviluppo’ impostati per decenni a Bruxelles hanno perso col tempo la loro efficacia, anche a causa delle iniziative indiscutibilmente ‘predatorie’ della Cina, con la sua penetrazione economica in Africa, e della Russia, con le sue intrusioni militari nel Sahel e in Libia. A scapito tanto delle condizionalità imposte dalla politica africana dell’Unione europea, quanto di una più accurata gestione dei rapporti con un continente che rimane ‘terzo mondo’, assoggettato alle azioni, non più dell’Europa, tanto meno dell’America.
All’Italia, particolarmente esposta, spetterebbe il compito di farsi promotrice in sede europea, non già di richieste di una più equa distribuzione dell’accoglienza, bensì di una più attiva politica europea nel continente africano, anche nei confronti dei paesi di transito, in particolare in una Libia ancora disintegrata, nostra dirimpettaia. (Che ne è, d’altronde, di quel ‘partenariato’ dell’Unione con i paesi arabi, diventato nel frattempo evanescente?).
Una zona del mondo in cui fra le ‘sorelle latine’, invece del continuo scambio di imputazioni e polemiche, dovrebbe manifestarsi una comune strategia (ai sensi dell’apparentemente dimenticato ‘Trattato del Quirinale’). Tanto più nel momento in cui la stessa Francia ha deciso di disfarsi dell’opera di assistenza economica e militare prodigata sinora, anche in funzione anti-terroristica, nel Sahel.
Rendendoci finalmente conto che è l’intera regione mediterranea a farne le spese; diventata, com’è palesemente, una faglia non meno pericolosa di quella apertasi in Ucraina, della quale rischia altrimenti di diventare una delle tante conseguenze.
Con le relative, sempre più evidenti, analoghe ripercussioni, in termini sociali ed elettorali, nei vari paesi dell’Unione.