Nelle cose, al di là delle opinioni e delle scelte politiche personali, bisognerebbe sempre dare a ciascuno il suo. E riconoscere, come in questo caso, che fu già un giovane Claudio Martelli a ragionare, nel 1982, su “merito” e “bisogni”. Quindi (e da un lato) nulla di nuovo sotto il sole, se il tema è stato posto nel dibattito politico italiano almeno quarant’anni or sono e da un esponente socialista (non di destra dunque). Dall’altro, perché scandalizzarsi se è già forte nella Costituzione il richiamo al fatto che i “capaci e meritevoli” hanno il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34)?
Si potrebbe, anzi, dire che ci troviamo quasi in presenza di un pleonasmo, poiché se alla dimensione dell’istruzione non è associata anche quella del merito di cosa si sta discutendo?
Poi, va da sé che questo apra la porta all’infinito dibattito su cosa il merito sia e su come lo si misuri e lo si valuti, ma che debba esserci e che la sua presenza non vada, tuttavia, confusa con una sorta di struggle for life ingaggiata con l’unico scopo di arrivare primi dovrebbe essere fuori discussione. Inclusione, partecipazione, attenzione verso lo svantaggio, cura nei confronti delle povertà educative, lotta alla dispersione (e l’elenco, qui ovviamente esemplificato, potrebbe proseguire a lungo) sono altre ineludibili dimensioni delle quali la scuola quotidianamente deve farsi carico.
E però l’uno non esclude, né concettualmente né di fatto, le altre dimensioni appena richiamate, a meno di affermare una logica (e una pratica) dell’aut aut invece che quella dell’et et.
E bisognerebbe anche ricordare in questa discussione che le cosiddette Scuole universitarie speciali (la Normale e il Sant’Anna di Pisa, lo Iuss di Pavia, vale a dire alcune tra le maggiori eccellenze del sistema universitario italiano) proprio sul merito giocano, da sempre, la loro scommessa, prevedendo tra l’altro, a fronte della totale gratuità per gli studenti dei loro corsi, iperselettive prove di ammissione (altro che i test di Medicina!), il mantenimento di una media voti minima negli esami di profitto (27/30), il superamento senza ritardi di tutti gli esami previsti nel piano di studi di ciascun anno accademico (e certo che c’è un vantaggio “a monte” per chi nasce in famiglie agiate e con biblioteche, ma questo dimostra soltanto che proprio quelle diseguaglianze “a monte” vanno affrontate e risolte e non che esse si risolvano eludendo la questione del merito).
E ancora, merito di chi? E come? Dei docenti (e come si misura, come si valuta, chi lo giudica, quali conseguenze comporta sullo sviluppo di una carriera, che, al momento, semplicemente non c’è)? Degli studenti (ma questi vengono già valutati e allora il problema non può essere tanto quello di introdurre strumenti di valutazione, bensì, e caso mai, dell’uso e dell’adeguatezza di tali strumenti)? E perché no anche del personale amministrativo e tecnico, snodo essenziale e spesso del tutto ignorato del sistema dell’istruzione?
Ultimo passaggio (inevitabilmente rapsodico, come gli altri). Qualcuno dice e scrive (lo ha fatto, per esempio, Pietro Ichino su «Repubblica» del 28 ottobre) che i docenti delle scuole andrebbero valutati rilevando le opinioni delle famiglie e degli studenti.
E i docenti universitari perché no dai loro studenti, visto, incidentalmente, che anche la formazione degli insegnanti passa attraverso le loro aule? E perché no anche i medici dai pazienti, e così via per tutti gli altri lavoratori che svolgono un pubblico servizio?
Se il problema del merito fosse una questione soltanto della scuola (e non anche della selezione di chiunque svolga funzioni pubbliche) probabilmente non sarebbe tanto dirompente e di così ampia portata, perché se l’ascensore sociale è in gran parte bloccato molti e di varia natura sono i suoi momenti di stasi e non pochi sono quelli che si verificano all’esterno delle aule scolastiche.