Al cospetto dell’efficace resistenza ucraina, Putin ha cambiato lo scenario dell’aggressione. Decidendo di procedere ad una ‘mobilitazione parziale’, ammette alla sua stessa opinione pubblica che di vera e propria guerra si tratta.
L’originaria ‘operazione speciale’, da militare, è stata tramutata in ‘referendaria’, nell’evidente proditorio intento di annettere altrimenti i territori contesi, collocandoli sotto il suo ‘ombrello nucleare’, al pari di quanto fece nel 2015, impunemente ma senza l’attuale spargimento di sangue, in Crimea.
Ogni prospettiva negoziale rimane distante. A Mosca, una fonte autorevole afferma che la soluzione dovrebbe essere “una trattativa con Stati Uniti e NATO, senza l’Ucraina, subito dopo l’annuncio che i quattro territori sono russi”. Senza l’Ucraina, ma anche, si noti bene, senza l’Europa, che Mosca conferma di voler rendere ancora succube dell’antico duopolio russo-americano.
Per poter sostenere di aver ottenuto una vittoria, per quanto parziale, l’autocrate del Cremlino vorrebbe assimilare non soltanto il Donbass, iniziale innesco della crisi, ma anche le province meridionali di Kerson e di Zaporizhia. Il che proietterebbe la Russia verso Odessa, ostruendo all’Ucraina l’intera costa del Mar nero.
Moltiplicando i suoi atti illegali, e sfidano sotto la minaccia nucleare la comunità internazionale ad impedirglielo, al cospetto dell’annuale sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU, che i suoi fondatori definirono il ‘Parlamento dell’uomo’, Putin pare puntare sulla ‘teoria del folle’, al dichiarato scopo di disintegrarne la funzione istituzionale. Apparentemente immemore di quanto l’intervento in Afghanistan si risolse nella fine dell’Unione Sovietica.
Un proposito che il resto della comunità internazionale, dalla ‘amica’ Cina alla non-allineata India, rimasta finora ‘non allineata’, si è finalmente dichiarata indisposta a condividere. Al Palazzo di Vetro, Zelenski ha ricevuto una ‘standing ovation’, mentre, in un’apposita riunione del Consiglio di Sicurezza, Lavrov ha pedissequamente letto l’intervento predispostogli dal Cremlino, allontanandosi subito dopo, senza esporsi ad un contraddittorio. (Misterioso il tenore del suo breve colloquio con il Segretario di Stato della Santa Sede, Cardinale Parolin).
Il problema, per Putin come per noi, non è più ormai quello di risolvere la questione sul campo di battaglia, dove le operazioni belliche continueranno ad infierire, bensì di trovare la formula per farlo uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato. L’unico modo pare non poter essere che la riattivazione del sistema internazionale predisposto dalla Nazioni Unite, nel quale reintegrare un giorno la Russia.
Nella riassunzione delle responsabilità di ‘superpotenza’ di cui continua istituzionalmente a disporre in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza, coinvolgendosi piuttosto nelle altre situazioni di crisi che certo non mancano (Iran, Medioriente, Afghanistan, Corea del Nord), il cui avvio a soluzione non può fare a meno del contributo della Russia.
Un’operazione alla quale l’Unione deve poter fornire il proprio valore aggiunto di attore internazionale che allo strumento militare ha rinunciato, fidando invece nella sua forza di attrazione multilaterale.
Perché ciò avvenga, Mosca dovrebbe però liberarsi della paranoia dell’aggressività di un Occidente che, pur solidale, rimane invece interdetto sul da farsi. E dedicarsi piuttosto alla soluzione della fascia di crisi che, ben oltre l’Ucraina, affliggono gli altri Stati del suo ‘estero vicino’, dall’Azerbaigian e Armenia, al Tadjikistan e Khighizistan che, sfuggendo al controllo di Mosca, finiranno rispettivamente nelle braccia di Ankara e di Pechino.
Per non parlare della Corea del Nord, dell’Afghanistan, della Libia, situazioni tutte che non possono palesemente essere contenute e avviate a soluzione che dal convergente concorso dell’intera comunità internazionale.