Sorprende che, in un momento-cerniera della Storia contemporanea, il sentimento pro-putiniano, e il corrispondente sentimento anti-americano, continuino ad albergare nelle menti della nostra opinione pubblica, come ai tempi della Guerra fredda. Proprio nel momento in cui, chiamati alle urne, dovremmo renderci conto di dover decidere della nostra collocazione internazionale in uno scenario che ripropone le antiche logiche dei rapporti di forza.
Bisognerebbe, si direbbe, riscoprire le ragioni che, nell’immediato dopoguerra, ci condussero ad aderire a un sistema al quale un’Europa devastata ma democratica si aggrappò, in contrapposizione a un’altra Europa invasa e dominata. Riscoprendo quel comune seppur mutevole denominatore transatlantico che ci ha sorretto in questo dopoguerra, nei confronti di un ben diverso interlocutore continentale.
Nel 1941, prima di morire da partigiano, Giaime Pintor riconobbe che “questa America non ha bisogno di Colombo, essa è scoperta dentro di noi, è la terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei primi emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di fatiche e di errori la dignità della condizione umana”. Non diversamente si espresse, nel 1947, Cesare Pavese: “un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente”. E Italo Calvino, nel 1953: “terra d’utopia… simbolo complesso di tutti i fermenti e di tutte le realtà contemporanee, un misto di America, di Russia e d’Italia, con in più un sapore di terre primitive”.
Considerazioni non dissimili da quelle che d’oltreoceano inducono al giorno d’oggi Robert Kagan a sintetizzare: “la maggior parte degli europei non si rende conto del gran paradosso che il loro passaggio alla ‘post-Storia’ è dipeso dal fatto che gli Stati Uniti quel passaggio non l’abbiano fatto. [Al punto che] gli Stati Uniti, con tutta la loro immensa potenza, rimangono impantanati nella Storia”.
In rinnovata contrapposizione frontale con le convinzioni espresse dal Cremlino. Che, abbandonando il cammino che abbiamo percorso assieme dalla caduta del Muro (fu Gorbaciov ad invocare la “casa comune europea”), ha perso il pelo del comunismo ma non il vizio di considerarsi estranea al mondo occidentale. Al punto di invocare quel ‘conflitto di civiltà’ che pensavamo semmai riservato alle nazioni al difuori dei confini della Cristianità. Un’eredità comune che Mosca declina oggi diversamente.
Intervistato dal New York Times, uno degli ideologi di Putin, Sergey Karaganov, si esprime nei termini seguenti: “Questo conflitto non riguarda l’Ucraina… Abbiamo visto come l’Occidente stava collassando in termini economici, morali e politici: una classica situazione prebellica… Quindi Mosca ha deciso di anticipare il conflitto e dettarne i termini. Il Covid ha soltanto rinviato la decisione… Più lontani ci collochiamo da un Occidente che ha abbandonato la propria storia, cultura, valori morali cristiani, meglio sarà; almeno per il prossimo decennio o due… Mentre la ‘cultura della cancellazione’ va estendendosi in Occidente, potremmo rimanere uno dei rari luoghi nel quale salvaguardare la cultura e i valori occidentali… Questo conflitto è di natura esistenziale per le élite occidentali che stanno fallendo e stanno perdendo la fiducia delle loro popolazioni… La Russia svolgerà il proprio ruolo naturale di civiltà delle civiltà, in un mondo più libero, multipolare e multiculturale”.
Se questo è lo stato della situazione, ci troviamo ad affrontare una riedizione della Guerra fredda, di diverso ordine ideologico ma della medesima consistenza. Della durata imprevedibile, giacché mancano le premesse per un qualsiasi negoziato compromissorio. Da parte nostra, si tratta quindi, non di sforzarci di comprendere le distorsioni dell’avversario, ma di consolidare le nostre convinzioni civiche e politiche. Ritrovare e riaffermare cioè i principi fondanti, umanistici e illuministici, che la Russia non ha invece sperimentato né, quindi, assimilato.
Tenendo presente che l’elemento essenziale rimane la nostra collocazione internazionale, determinata non soltanto dalle nostre intenzioni, per quanto confuse, ma soprattutto dalla rispondenza degli altri ad una nazione troppo a lungo accudita dall’Alleanza atlantica e dalla Comunità europea. Che non riesce a riflettere sul proprio specifico interesse nazionale, ricorrentemente in balia di movimenti populisti che semplificano situazioni sempre più complesse. Che continua a sbandierare una PACE che altro non significa se non “Lasciateci in pace!”. Francia o Spagna…
“Non temete, non sarà la regione popolosa e ignorante, quella che dominerà; sarà la centrale di forza motrice meglio organizzata. Perché di centrali motrici non si può far senza: e le centrali non si fanno funzionare con gli inni patriottici, con l’odio allo straniero, e le parate, e gli spauracchi, come fa il nazionalismo, che non vive d’altro” (G.B.Shaw, The apple cart, 1930).