Attonita da quel che accade in Ucraina, derisa dalla Russia nei suoi ripetuti tentativi di mediazione, l’Europa ha reagito nell’unico modo in cui poteva rendersi visibile al proscenio internazionale: concedendo all’Ucraina, assieme alla Moldova e più prudentemente alla Georgia, lo status di ‘paese candidato’.
Non si dimentichi che la crisi ucraina trova la sua origine proprio in quell’accordo di associazione (non adesione) all’Unione europea, che nel 2014 provocò l’opposizione di Mosca e la conseguente ‘rivoluzione arancione’ a Piazza Maidan (l’accordo fu poi concluso nel 2017).
Nessuno dei tre paesi ora presi in considerazione dispone delle precondizioni prescritte dai criteri, di stato di diritto ed economia di mercato, definiti a Copenhagen nel 1993, né tanto meno di un’effettiva sovranità territoriale che, in tutti e tre i casi, la Russia viola da anni.
Le sopravvenute circostanze continentali hanno però evocato l’eventualità di costituire un cerchio politico esterno all’Unione, nel quale includere i vari candidati ad una piena adesione istituzionale.
Il Consiglio europeo ha infatti dichiarato di aver “discusso la proposta di creare una comunità politica europea”, destinata a “promuovere un coordinamento politico per i paesi di tutto il continente, con i quali promuovere il dialogo politico e la cooperazione, per affrontare questioni di interesse comune … Tale quadro – si precisa – non sostituirà le politiche e gli strumenti esistenti, in particolare l’allargamento”.
Si è quindi trattato di un’affermazione di prevalente carattere politico, che si affianca a quella che nel 2003 riconobbe una ‘prospettiva europea’ ai paesi dei Balcani occidentali. I quali si ritengono oggi scavalcati nelle loro aspettative, bloccate peraltro anch’esse dalla mancata soluzione dei loro rapporti reciproci.
Sulla più ampia scena internazionale, mentre Cina e Russia hanno inscenato una riunione del BRICS svoltasi ‘a distanza’, due degli altri tre membri del fantomatico gruppo, l’India e il Sudafrica, hanno subito dopo partecipato, questa volta in presenza, (assieme ad Argentina – invece del Brasile, Indonesia – presidente del G20, e Senegal) all’annuale riunione del G7, dichiaratisi, nei confronti di Mosca, “uniti per tutto il tempo che sarà necessario”.
A dimostrazione di come gli schieramenti internazionali non si siano ancora risistemati, e di quanto la ‘Partnership per le infrastrutture’ avviata in tale occasione dalle massime economie libere possa utilmente misurarsi con la ‘Nuova via della seta’ cinese (disponendo concreti progetti in Angola, Costa D’Avorio, Senegal e Sud-est asiatico).
Nel corso della medesima settimana, al Vertice della NATO sono stati ammessi ad assistere anche Australia, Giappone e Corea del Sud, alleati degli Stati Uniti nel Pacifico. Una riunione che, oltre ad aggiornare il concetto strategico che prende atto del fatto che la Russia non è più il partner descritto nel precedente documento di dodici anni fa, ha registrato l’adesione di Svezia e Finlandia all’Alleanza atlantica, superando l’ostruzionismo di una Turchia che persevera nel difficile suo equilibrismo, teso a dimostrarsi risolutrice tanto nella NATO quanto nei confronti di Mosca.
Il fatto più rilevante non consiste peraltro nelle rispettive proiezioni esterne dell’UE, della NATO, del G7, bensì nella risultante concatenazione, da matrioske (o scatole cinesi), delle varie istituzioni delle quali si avvale l’Occidente, che riafferma e consolida quella solidarietà di propositi più che mai essenziale per ristabilire la massa critica indispensabile per ricostituire il nucleo trainante dell’auspicabile ricomposizione di un sistema internazionale globalmente condiviso.