Giovani e lavoro, un tema che è stato spesso affrontato in modo ideologico, ovvero contrapponendo le soluzioni proposte ora dall’una, ora dall’altra parte politica. Le tristi conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Proviamo, invece, ad analizzare la questione da due punti di vista, uno sociologico, l’altro formativo.
Se affrontiamo il problema da una prospettiva sociologica, la domanda che ci dobbiamo porre è la seguente: cosa si aspettano i nostri giovani dal loro futuro? Soprattutto, perché si aspettano cosi poco? L’incertezza, il disincanto, la mancanza di progettualità caratterizzano, purtroppo, il pensiero dei nostri giovani. L’aspetto formativo chiama, invece, in campo il ruolo e la responsabilità di noi adulti. La crisi della famiglia determina il venir meno del futuro dei giovani; la scuola, inoltre, da lungo tempo non solo non è più un ascensore sociale ma, soprattutto, non riesce a favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Due milioni di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, sono il tragico epilogo.
Davanti al fenomeno dei Neet, è quanto mai necessario che ci poniamo una domanda: vogliamo per davvero dare un’opportunità ai nostri ragazzi oltre ogni slogan e oltre ogni logica di partito? Se lo vogliamo veramente, allora il primo passo è avviare la riforma degli ITS, affinché non siano visti come un ripiego o un lunapark per ragazzi sfaticati. Ancora, occorre liberare la scuola, perché risulti più giusta e più equa, per tutti, e non terribilmente classista e regionalista, come lo è oggi. Stucchevole è ripetere, ancora una volta, che, a fronte di un allievo che costa dagli 8.500 ai 10mila euro di tasse dei cittadini, spendendo la metà di tale cifra si può garantire una scuola statale autonoma, una scuola paritaria libera, di qualità, per tutti. La realtà, invece, lo sappiamo, è molto diversa: si arriva al punto in cui non solo si è stanchi ma si è liberi di opporsi all’idiozia culturale di chi mette in ginocchio il Paese con slogan assurdi, carpisce la buona fede, cavalca il malessere e se ne serve, poi, non pago, cambia casacca, allo slogan solo gli stupidi non cambiano idea. Il tutto guardandosi bene dal chiedere scusa a migliaia di giovani, proprio loro, ingannati e traditi.
Il fallimento formativo è sotto gli occhi di tutti: quindi se è vero, come è vero, che ci sono aziende che sfruttano i giovani con contratti a tempo determinato e con retribuzioni alla soglia della sopravvivenza, occorre essere onesti nel porre una seconda domanda: quanti dei nostri giovani sono disposti a fare la gavetta? E, se non lo sono, dobbiamo avere il coraggio di indagarne le ragioni. Un ricordo personale: mi rivedo, appena laureata in Giurisprudenza, a fare il praticantato presso uno studio legale milanese, 10 ore al giorno, sei giorni su sette. Mi pareva un dono perché avrei imparato moltissimo.
Per la mia generazione la gavetta era vissuta con entusiasmo, perché in prospettiva sognavamo un mondo fatto di meritocrazia. Il tuo impegno sarebbe stato premiato, era ancora possibile pensare alla carriera. Al contrario, in una società, come quella attuale, incapace di riconoscere e valorizzare le eccellenze, dove la meritocrazia è abbondantemente superata dal baronato delle Università, dalla raccomandazione, dal posto fisso, quali prospettive hanno i nostri giovani? Evidentemente non ne hanno. Il termine gavetta è svuotato di significato: non ci può essere gavetta, infatti, senza logiche di meritocrazia e premialità. Ma anche la gavetta è figlia dell’educazione: come può un ragazzo di 16, 17, 18, 19 anni non avere una alternativa al nulla? Come un genitore può acconsentire che il proprio figlio non dedichi il proprio tempo ad una attività di volontariato, in qualsiasi settore?
È ovvio che, se il giovane è abituato a trascorrere il proprio tempo nel nulla, quando si presenterà ad un colloquio, cosa chiederà, se non quando sono le ferie o se si lavora il sabato? E mi sia consentito di dire che la scuola ha purtroppo una grande responsabilità. Due esempi: quanti presidi e dirigenti temono le bocciature al pensiero del sicuro ricorso da parte dei genitori? Perché si ha paura ad ammettere che il proprio figlio non ha studiato, non è stato sufficientemente responsabile? Perché il figlio ha sempre ragione rispetto ai dati incontrovertibili della scuola? Un altro esempio molto concreto: la normativa sulla privacy vieta l’esposizione dei tabelloni con i risultati dello scrutinio finale. Io ricordo che mi recavo a scuola e col dito facevo passare i voti che avevo ricevuto e vedevo quelli dei miei compagni, loro, ovviamente, vedevano i miei. Chi veniva bocciato almeno per una settimana teneva sotto gli occhi il successo degli amici che nulla avevano fatto di diverso da lui, se non essere seri, e poi basta, tutto finiva lì. Ora no: occorre tutelare la privacy. Solo che, così facendo, di tutela in tutela, noi deresponsabilizziamo i giovani e li abituiamo che la vita sia così. Bocciato? Esami a settembre? Bocche cucite del pargolo e dei familiari e la cosa è morta lì. Nessun senso di responsabilità verso nessuno. Soprattutto se con un filo di studio in più il bocciato ce l’avrebbe fatta… Nessuno in Italia è bocciato se non ce la fa per natura…. Ma questo vuol dire tradire i nostri giovani e darli in pasto a chi poi davvero li sfrutterà, perché incapaci di operare qualsiasi scelta. Fino al paradosso: un diplomato al liceo scientifico si iscrive a Matematica. Discalculico grave. Bocciato al primo esame. Non sapeva neppure la domanda a scelta. Torniamo allora ad educare i giovani alla responsabilità e all’impegno, senza spaventarli o essere inutilmente duri, ma semplicemente rendendoli consapevoli della realtà e di quello che loro possono fare per il bene di tutti.
- Un passo in più. Grazie al lavoro si è in grado di capire anche quello che è giusto o è sbagliato nel nostro Paese, si individuano i problemi, gli errori, quali sono, invece, i casi di buon Governo. L’arte del governare bene si impara lavorando perché si matura un approccio intelligente della realtà. Dal lavoro nascono e si sviluppano le doti di concretezza, la capacità di capire la realtà e le prospettive future delle persone, a cominciare dai propri figli. Ma qual è stata la risposta della nostra classe politica al problema dei giovani e del lavoro? Il reddito di cittadinanza, ossia spese enormi a carico dello Stato e quindi dei contribuenti, motivate dal fatto che sarebbe stata eliminata la povertà. È chiaro che chi ha concepito il reddito di cittadinanza non aveva nessun tipo di conoscenza della realtà. La realtà da anni invoca altre soluzioni e cioè una scuola che torni ad essere un ascensore sociale, una scuola che favorisca l’inserimento dei giovani nel lavoro, università liberate dal baronato, il cuneo fiscale ridotto perché se un datore di lavoro al netto deve sommare il 67% di tasse è evidente che nessun salario minimo potrà strappare i ragazzi alla povertà materiale e, peggio, a quella della deprivazione culturale cui li ha condannati una certa classe dirigente che li ha prima ingannati e poi traditi. Da gestore di scuole paritarie soffro nel vedere che i docenti, non potendosi abilitare, sono condannati a contratti a tempo determinato. Docenti che si vedono costretti ad abbandonare la cattedra nella scuola paritaria, innanzitutto perché non riescono ad abilitarsi, poi perché lo stipendio è inferiore rispetto ai colleghi della scuola statale. In tutto questo si è aggiunta la crisi economica che ha aggravato la situazione, rendendo quel posto precario: le scuole paritarie, infatti, costrette ad applicare rette pari al costo medio studente, cioè 7.500 euro, come dicono i dati del MI, piuttosto che tagliare in due la società, chiudono e cosi muoiono presidi di libertà, si consegna il Paese al monopolio educativo. Insomma, il covid prima e la guerra poi, se hanno portato il Governo ad investire 300 Mln di euro per gli studenti della scuola paritaria, poi 70 Mln di euro, a portare il sostegno a 7mila euro per allievo, a destinare 200 euro per ogni allievo profugo dell’Ucraina, è la prova provata che è chiaro anche alle pietre che la scuola paritaria e statale sono entrambe indispensabili per risolvere i problemi legati al mondo della gioventù. E allora si abbia il coraggio di andare spediti verso questa strada.
Crediamo per davvero che i nostri giovani abbiano il diritto a lavorare con una giusta remunerazione? Se lo crediamo veramente, allora basta slogan: la realtà impone alla classe politica di cambiare radicalmente atteggiamento. Pazienza se il Parlamento era stato paragonato ad una scatoletta di tonno o migliaia di giovani sono stati ingannati con l’illusione che il lavoro può essere sostituito dal sussidio e che i docenti precari avrebbero avuto la cattedra vicino a casa con danni nefasti. Il sussidio intercettato dalla mafia ha reso tutti più poveri, la scuola vive una situazione di incertezza assoluta, dal momento che non si trovano docenti, neanche non abilitati ormai.
Come occorre agire? Il percorso è duplice: a) puntare sui decreti legislativi al Family act, soprattutto degli artt. 1 e 2, b) ridurre il cuneo fiscale. La riforma è semplice ma il prezzo da pagare è alto per la nostra classe politica: sarà essa disposta a rinunciare ad uno stato gestore che elargisce mancette e a tornare ad essere uno stato garante con protagonisti i cittadini? Confidiamo tutti nella seconda alternativa!
Io, certamente, non mi farò intimidire dai cinguettii social: i giovani hanno bisogno di speranza che si nutre dell’arte della denuncia e del coraggio delle proposte. Questo serve alla nostra società, ne sono convinta.