Per qualche centimetro in più

di 30 Maggio 2022

(Ancora) il dress code scolastico

C’era una volta il comune senso del pudore e in nome di questo “senso comune” si censurarono film e spettacoli e si fece del corpo il teatro di una disfida a colpi di centimetri, quando non di millimetri. Uno sopra o sotto cambiava tutto, come cambiava tutto se il vestito si presentava, addosso, come stretto o largo, fasciante o cascante, insomma se lasciava ben vedere le forme o le faceva soltanto intuire. E hai voglia a dire: “E allora nell’arte classica?”, “allora quei corpi, maschili e femminili, così ben esposti e senza veli?”. Il “comune senso” trionfava in molte aule di tribunali e tra la pubblica opinione benpensante (con il suo seguito di tiggì, giornali non ancora giornaloni e politici pronti a dichiarare).

E veniamo all’oggi, quando al senso del pudore, tramontato nelle sale cinematografiche e negli spettacoli, sembra essere rimasto il solo regno delle aule scolastiche. Con magno giubilo, ancora, di giornali e tiggì, lesti, persino in tempo di guerra ed epidemie, a scaraventarsi su ogni singolo caso per depositare un po’ di colonne in cronaca, mentre, invece, dovrebbero prevedere una rubrica fissa, perché a ogni scaldarsi delle temperature puntualmente fa ritorno il dress code scolastico, più o meno come gli allarmi per la neve in inverno e quelli per l’afa in estate.

Ed è anche vero che se non ci fossero i dibattiti sul dress code di tarda primavera un po’ ci mancherebbero, visto che sono il preludio del canto del cigno di un’altra stagione scolastica che sta volando via, prima del vero canto conclusivo sugli esami che, c’è da scommetterci, neppure quest’anno mancherà, con un filo di nostalgia da parte di qualcuno per “quizzoni” e “oraloni”, i quali, non essendoci più, giacciono depositati nella pace degli archivi, pronti a essere riesumati come argomento di dibattito, un anno o l’altro, nel caso di un loro a oggi imprevedibile recupero. Eppure, pur ammesso tutto questo, qualche questione, come si sarebbe detto, “di fondo” rimane e sollecita alcune domande.

Perché, è chiaro, è un fatto di limiti, di soglie, di confini, tra il lecito e l’illecito, l’ammissibile e l’inammissibile, il vietato e il consentito, considerato che poi tali limiti hanno una loro storicità e che dai languori di Cuore alla gioventù libertina dei Porci con le ali di Ravera e Lombardo Radice il peso del tempo pure nelle aule si avverte e si misura, tanta è l’acqua trascorsa sotto i ponti. E allora, dove collocare tale limite e confine? E con quale metro misurarlo? La morale (che nel caso è particolarmente mobile)? La legge di natura (che vattelappesca cosa comanda)? La legge positiva (che, tuttavia, dice e non dice, mentre se inequivocabilmente dicesse avrebbe risolto ogni problema)? La lex specialis di ciascuna scuola (che, però, farebbe sì che ciò che è consentito a Palermo possa essere proibito a Milano)? Il dress code nelle aule sollecita aporie, “capricci” filosofici (quando non teologici), quaestiones Scolastiche (nel senso della filosofia delle Scholae medievali). Ed è, perciò, problema meno “ingenuo” e “vago” di quanto sembrerebbe e sarà, infine, un problema per soli studenti e studentesse o anche per docenti, presidi e rimanente personale scolastico? Libertà per tutti e per ciascuno? O solo per qualcuno? E anche la libertà, poi, fino a dove si può spingere? Un gatto che si morde la coda e un circolo che eternamente ritorna su sé stesso. Per questo, anche, senza soluzione?

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