Confesso che negli anni mi sono sempre stupito nel leggere o ascoltare dichiarazioni del tipo: “Il Sud è stato dimenticato”, “Non si parla più di Mezzogiorno”, “La questione meridionale è stata rimossa” e altre affermazioni di questo tenore. Sarà che il mio punto di vista è condizionato dal punto di osservazione professionale, ma l’impressione che ho sempre avuto è sempre stata esattamente opposta. Di Sud si parla molto, il pensiero sul Sud è sempre ricco di analisi, studi, indagini, proposte, strategie. È così da sempre, seppur ovviamente con intensità e sensibilità diverse, e non potrebbe essere diversamente. La questione meridionale è la più importante questione nazionale ed è normale che intellettuali, studiosi, economisti e qualche volta politici si siano interrogati e continuino a interrogarsi su come superarla.
Non mancano neanche le analisi e le letture innovative, che superano un vecchio meridionalismo rivendicativo e che tratteggiano un Mezzogiorno senza nostalgie, aperto, innovativo, liberale, “come non lo avete mai visto”, per riprendere l’immagine della Ministra Carfagna evocata nel recente Forum di Sorrento “Verso Sud”.
Cosa manca dunque al dibattito sul Sud? A mio avviso ciò che difetta è l’attenzione alla capacità di passare dalle idee (e dalle tante parole) ai fatti. Manca la capacità di tradurre le visioni in realizzazioni, di costruire percorsi, metodi, metriche. È questa la vera emergenza che se rimarrà irrisolta continuerà a generare fallimenti. Ma di fronte a questo rischio è necessario interrogarsi su dove vadano cercate le responsabilità.
Credo che bisogna puntare soprattutto l’attenzione su una classe politica meridionale (con le dovute eccezioni) mediocre, che non ascolta, che diserta i luoghi delle proposte e dell’elaborazione intellettuale, ostaggio del cortocircuito delle quattro C: consenso, clientele, corruzione, criminalità. Un circolo vizioso che si autoalimenta e che lascia poco spazio, tempo ed energie per l’ascolto di altre istanze, che non consente di tradurre in strategie e policies ambiziose le molte proposte che arrivano dal mondo della ricerca, della cultura, dell’innovazione. Che ignora le sfide internazionali, concentrandosi sul cortile e sui cortigiani.
Vi è poi la grande responsabilità delle burocrazie pubbliche, strutture essenzialmente parassitarie e conservatrici che frenano i processi di applicazione delle politiche pubbliche, capaci di depotenziare anche gli slanci dei pochi amministratori capaci e sinceramente desiderosi di cambiare l’esistente. Se non si scioglie questo nodo la grande quantità di risorse previste per il Sud nei prossimi anni andrà fuori bersaglio, a cominciare dagli ingenti fondi europei. Anche lo strumento più perfetto nelle maglie di queste burocrazie meridionali può diventare inutile. Un esempio per tutti: qualcuno ha notizie della Strategia Nazionale per le aree interne, strumento visionario che doveva rigenerare un pezzo importante di territorio ma inceppato da anni tra i bizantinismi e i lacci delle competenze dei vari livelli istituzionali meridionali e anche centrali? Il rischio è che anche il PNRR e tutte le misure, incluse quelle più urgenti, dalla sanità, all’istruzione alle infrastrutture materiali e immateriali necessarie al Sud, si incaglino in queste derive. È solo un rischio?
Ma non bisogna tralasciare la responsabilità della società civile, che si adatta ed è pesantemente condizionata dalla politica in tutte le sue componenti. Manca una sana frizione tra questi due blocchi. Questa tensione non c’è. Non c’è dialettica, non c’è scontro, salvo quando si tratta di rivendicare prebende, aiuti, protezione.
Occorrerebbe invece pretendere che si costruisca un ecosistema aperto, battersi per un territorio libero dalle varie servitù (non solo le mafie, ma appunto le clientele e la corruzione), in cui le migliori intelligenze abbiano la possibilità di sprigionare le loro energie. Serve una vera economia di mercato aperta alla concorrenza e al merito e che garantisca l’equità e l’attenzione ai bisogni degli ultimi, ma rompendo le catene del clientelismo e del paternalismo. Servirebbe uno sforzo civile immane, ma è l’unica strada per evitare l’assuefazione e la rassegnazione. E in questo, scuola e università hanno un ruolo determinante.
È di tutte queste cose che non si parla quando si parla di Sud. Ed è bene che la rinnovata attenzione al dibattito porti a puntare i riflettori non solo sulle idee e sui flussi di denaro (che mai come ora ci sono) ma sull’applicazione pratica delle visioni, sul personale politico e burocratico locale che dovrà tradurre in pratica tali visioni e, in definitiva, c’è bisogno di uno sforzo culturale che nel medio periodo generi nella società civile la consapevolezza della sfida epocale che si ha davanti e l’intransigenza di chi non deve commettere più gli errori del passato.
Florindo Rubbettino