Fede e società, dunque. Due mondi che, lo sappiamo, sembrano, e per alcuni versi lo sono realmente, quanto mai distanti, soprattutto distanti dalla quasi totalità dei giovani. Prima di procedere, ritengo necessaria una premessa metodologica: noi affrontiamo la delicata questione della fede in rapporto alla società e ai giovani non da un punto di vista pastorale o teologico ma dal punto di vista che ci è proprio, ossia quello educativo, in quanto docenti e docenti di scuola cattolica.
Quando sento i racconti dei docenti riguardo alle scelte religiose dei loro studenti, mi viene in mente quel passo del Vangelo in cui Gesù pone la domanda: Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora la fede sulla terra?
Pur presa, a volte, da un senso di scoraggiamento, sentimento tipicamente umano, tuttavia rispondo: Certamente! Ma in una forma diversa rispetto a quella cui siamo abituati. Non più una fede di massa ma una fede vissuta nel piccolo, forse più sentita, forse più sincera. Non più una fede capace di incidere sulle scelte di una nazione: una realtà di cui il mondo cattolico prese amara consapevolezza a metà degli anni Settanta, a seguito dei referendum sul divorzio e sull’aborto.
Occorre, quindi, risalire a quegli anni, quando si manifestò la prima grande frattura tra Chiesa e Società. Pochi anni prima era stata pubblicata l’Humanae vita di San Paolo VI, testo tanto criticato, anche all’interno del mondo cattolico. Eppure, se siamo qui a parlarne, vuol dire che ancora oggi noi riteniamo che sia utile profondere le nostre forze per creare le condizioni grazie alle quali i nostri giovani avvertano il bisogno di una fede capace di dare senso alle inquietudini ma anche alle gioie della nostra esistenza.
Va ricordato, innanzitutto, che la fede è un dono di Dio. Ovviamente è un dono che va cercato e, una volta ricevuto, coltivato. Allora, come educatori, il nostro primo compito è quello di istillare nei giovani il senso della ricerca, il gusto della sfidante bellezza dell’indagine delle ragioni ultime della vita e del suo senso. Se la nostra società si allontana non solo dalla pratica ma anche dalla domanda religiosa, (da quel senso religioso così mirabilmente descritto da Romano Guardini), a maggior ragione dobbiamo far sì che i nostri giovani si pongano delle domande, si percepiscano come finiti e pertanto anelino all’infinito.
Lo sforzo più grande che come educatori dobbiamo fare nostro è sradicare nei giovani quel senso di autosufficienza: io basto a me stesso. No, l’uomo non basta a se stesso, ha bisogno di altri uomini e di altre donne e, quando anche questi ultimi non bastano, deve riconoscere che ha bisogno di Dio, non solo per colmare un vuoto ma soprattutto per trovare la bellezza di un’esistenza vissuta in pienezza e capace di farsi carico dell’altro. Papa Francesco parla di egolatria in riferimento all’uomo moderno: verissimo! Dal culto reso a Dio si è passati al culto reso dall’uomo all’uomo, per la sua bellezza, la sua forza, la sua capacità di creare attraverso gli infiniti campi delle innovazioni tecnologiche. Ma il risultato dell’egolatria è la chiusura e il ripiegamento su se stesso. Una chiusura asfittica con conseguenze tragiche. Dall’autosufficienza, allora, occorre aprirsi alla relazione, una relazione aperta al bene proprio e del prossimo.
È necessaria una rivoluzione del pensiero: credo, infatti, che una delle più belle eredità lasciate dal magistero del cardinale Scola alla nostra Diocesi sia quella dell’educare al pensiero di Cristo. Se fino alla mia generazione il Cristianesimo era inteso molto spesso come un codice di comportamento (se credi, devi fare questo, non devi fare quest’altro), ora la sfida è pensare la fede, avere il pensiero di Gesù, pensare a cosa vuol dire concretamente nella nostra vita credere in Dio che è Padre, un Padre che si rivela nel Figlio, un Figlio che si dona agli uomini nell’Eucarestia. Pensare innanzitutto, poi il pensiero inevitabilmente si tradurrà in azione.
Un passo in più. Se la fede è un dono, questo dono mi porta a credere che c’è un bene in ordine al quale tutto assume un valore preciso. Ancora: la fede è un dono di Dio ma è anche un atto libero e umano. Il Catechismo, infatti, afferma che credere “è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né alla intelligenza dell’uomo”. Pertanto dalla fede nascono pensiero e azione. Se la vita è un bene, essa va difesa; se la violenza è un male, essa va contrastata; non posso, quindi, accettare l’idea che tutto sia posto sullo stesso piano.
A volte mi domando quale sia il pensiero che caratterizza la nostra società, quale sia la visione che l’uomo di oggi ha e dà di se stesso, in quale idea l’uomo trovi un comune denominatore. Mi rendo conto che, purtroppo, è ormai impossibile trovare un denominatore comune. Si dice, infatti, che la nostra società sia caratterizzata dal relativismo: nulla ha valore in sé, nulla è in grado di dare una ragione alle nostre vite. Venuta meno la fiducia nelle tre agenzie educative tradizionali (famiglia, scuola, Chiesa), i valori da esse trasmessi sono stati posti a processo e spesso condannati senza appello.
Può il relativismo condurre l’umanità al bene, ossia a qualcosa che è percepito come bello, positivo, costruttivo, capace di generare altro bene, inteso secondo il dettame della legge naturale, inscritta nel cuore dell’uomo? Evidentemente no.
L’uomo nasce con una tensione verso il bene: certo, come donna di fede, credo che questa legge naturale sia “la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio nella creazione, nei Dieci Comandamenti e in Cristo, nuovo Mosè” come scrisse San Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis, l’enciclica inaugurale del suo pontificato. Al contrario, il relativismo è nemico di qualsiasi progetto educativo. Un progetto educativo che tale voglia essere realmente deve guardare alla globalità della persona umana. Cito un passaggio della Divini illius magistri, enciclica di Pio XI sul tema dell’educazione. Correva l’anno 1929. Un periodo nel quale in tanti si proclamavano maestri e diffondevano idee e valori che avrebbero portato l’Europa alle devastazioni della Seconda guerra Mondiale. Pio XI così si esprimeva: “Non si deve mai perdere di vista che il soggetto dell’educazione cristiana è l’uomo tutto quanto, spirito congiunto al corpo in unità di natura in tutte le sue facoltà, naturali e soprannaturali, quale ce lo fanno conoscere la retta ragione e la Rivelazione”.
Occorre, allora, essere consapevoli del pensiero dominante, per poterlo combattere dall’interno. È necessario, pertanto, riscoprire le ragioni di fondo del nostro essere insegnanti di scuola cattolica. O noi accettiamo la società così come essa è, oppure ci sforziamo di cambiarla. Come educatori e come tali aperti alla vita (l’educatore, ricordiamo, genera vita), non possiamo che scegliere la seconda via. Ritengo che per cambiare il rapporto tra fede e società sia quanto mai necessario che un insegnante di scuola cattolica plasmi nei discenti un habitus alla riflessione, chiedendo loro conto della ragione delle loro scelte, a qualsiasi campo esse appartengano. Dici di non credere: perché? Dici di credere: perché? In chi o in che cosa? In questo modo gli studenti saranno indotti a riflettere sul loro cammino di conoscenza, perché la riflessione sull’esperienza dell’apprendimento si trasformi poi in riflessione previa a qualsiasi scelta che saranno chiamati a compiere da adulti,
Si parte sempre dallo stesso presupposto: la risorsa più importante per ogni scuola, statale o paritaria, è data dai docenti: ai docenti di scuola cattolica, dobbiamo esserne consapevoli ogni giorno di più, è richiesto però uno sforzo ulteriore, cioè capire dove sono capitati (quasi sempre per caso) e, una volta acquisita contezza del dove sono capitati, impegnarsi, con l’aiuto di tutti, a realizzare il progetto educativo dell’Istituto. Il progetto educativo di qualsiasi scuola cattolica non si realizza solo attraverso la qualità dell’insegnamento: accanto a tale doverosa esigenza, esso si realizza tramite la testimonianza dei docenti, degli assistenti, di tutto il personale coinvolto a vario titolo nella scuola: decidendo di prestare servizio nella scuola cattolica, si deve essere consapevoli che, anche solo per pura onestà intellettuale, il docente deve volere e sapere proporsi come persona di riferimento per i giovani in virtù della propria coerenza di vita. Diciamolo subito: è difficilissimo!
Nel senso: ammesso e non concesso che il docente assunto abbia i titoli richiesti dalla normativa, noi gli chiediamo di conoscere e realizzare il nostro progetto educativo con la conseguente richiesta di mettersi in gioco, di seguire alcuni principi che percepiamo come fondanti. Noi, in pratica, chiediamo al docente di promuovere autentici valori umani per contrastare quel relativismo nel campo dei valori che contraddistingue il mondo contemporaneo, un relativismo nel quale siamo immersi noi educatori per primi e che rischia di compromettere qualsiasi proposta educativa basata su solidi riferimenti antropologici. Tutto ciò premesso, se siamo qui oggi, è perché riteniamo che, nonostante le difficoltà, valga la pena compiere questo sforzo, perché si ha a che fare con qualcosa di più grande di noi, che supera il nostro limitato orizzonte quotidiano.
Quali sono però le caratteristiche dell’insegnante di scuola cattolica? Per tratteggiarne le qualità, faremo qualche breve riferimento a due testi: il Codice di Diritto Canonico (emanato nel 1983 per volontà di Giovanni Paolo II e che sostituisce quello del 1917) e il documento Essere insegnanti di scuola cattolica (2008) redatto a cura del Consiglio nazionale della scuola cattolica.
Il Codice di Diritto Canonico si occupa di scuola cattolica al Titolo III, canoni dal 793 all’821. In particolare citiamo
Can. 796 – §1. Tra i mezzi per coltivare l’educazione i fedeli stimino grandemente le scuole, le quali appunto sono di precipuo aiuto ai genitori nell’adempiere la loro funzione educativa. |
Il fine della scuola tutta, statale o paritaria, è l’educazione, intesa come supporto alla famiglia che rimane il soggetto responsabile dell’educazione della prole. Da questo discende che, all’atto pratico, chi sceglie di insegnare nella scuola cattolica deve essere consapevole di questa apertura al dialogo con la famiglia. Questo non vuol dire che la scuola debba assecondare le famiglie in tutto, ma che l’azione quotidiana deve tenere conto che, nonostante le inevitabili difficoltà del dialogo, il rapporto con la famiglia va curato, perché sia dialogo vero e non monologo di una delle due parti |
Can. 797 – È necessario che i genitori nello scegliere le scuole godano di vera libertà; di conseguenza i fedeli devono impegnarsi perché la società civile riconosca ai genitori questa libertà e, osservata la giustizia distributiva, la tuteli anche con sussidi. |
Citiamo anche questo canone che non si riferisce direttamente alle caratteristiche del docente; Il suo contenuto costituisce la premessa giuridica dell’esistenza delle nostre scuole a ulteriore conferma della battaglia sulla libertà di scelta educativa in capo alla famiglia, prima educatrice e, come tale, nostra prima interlocutrice. |
Can. 803 – §1. Per scuola cattolica s’intende quella che l’autorità ecclesiastica competente o una persona giuridica ecclesiastica pubblica dirige, oppure quella che l’autorità ecclesiastica riconosce come tale con un documento scritto.§2. L’istruzione e l’educazione nella scuola cattolica deve fondarsi sui principi della dottrina cattolica; i maestri si distinguano per retta dottrina e per probità di vita. |
Retta dottrina e probità di vita sono le due caratteristiche dei docenti delle scuole cattoliche. La probità di vita è un invito alla coerenza del docente tra ciò che si afferma e ciò che si vive. Si tratta di quello che dicevamo in premessa: chi lavora nella scuola cattolica deve essere consapevole che la sua azione educativa deve fondarsi su una precisa antropologia, su valori avvertiti spesso come anacronistici. Pensiamo solo alla grande responsabilità di chi insegna scienze, alle medie o nelle classi alte dei nostri licei: come vengono affrontati, nella didattica, quei contenuti che intercettano il campo della bioetica, della morale? Sono gli insegnanti delle diverse discipline a rendere cattolica una scuola, non il contrario. |
In sintesi: il Diritto canonico ci fornisce non solo la prospettiva entro cui inserire la nostra azione, ma ci fornisce anche indicazioni pratiche così sintetizzabili:
FINE: educazione dei giovani
STRATEGIE: collaborazione con la famiglia – fedeltà all’intuizione di fondazione – conoscenza della propria disciplina – probità di vita
Di conseguenza possiamo dire che chi decide di lavorare presso le nostre scuole 1) deve essere un educatore, 2) deve conoscere il progetto educativo 3) deve creare sinergie con le famiglie 4) deve tendere alla coerenza fra ciò che chiede agli studenti e ciò che vive
Ricordiamoci di questi quattro punti.
L’altro documento, Essere insegnanti di scuola cattolica, definisce l’insegnante di scuola cattolica come:
- professionista dell’istruzione e dell’educazione
- educatore cristiano
- mediatore di uno specifico progetto educativo
- persona impegnata in un cammino di crescita e di maturazione spirituale
Richiamiamo velocemente alcune di quelle che sono definite “attitudini” dei primi due punti, perché forniscono i cardini culturali della scuola cattolica:
Attitudini conseguenti al punto 1: |
riferimento ad una teoria della conoscenza aperta al trascendente e ad una visione antropologica ispirata ad un umanesimo integralecoscienza e rispetto di una corretta deontologia professionale insieme ad una effettiva onestà intellettualerispetto della persona dello studente, del suo cammino di ricerca e della sua libertà, pur nel contesto di un confronto aperto e sereno |
Attitudini conseguenti al punto 2 |
educazione intesa come esercizio di libertàperseguimento di un umanesimo integralericonoscimento del valore del sapere scientifico, inserito nell’orizzonte di una razionalità vera aperta alla questione della verità |
Come si sarà notato, la libertà dello studente viene più volte citata come elemento da salvaguardare mediante l’opera educativa. Il concetto di libertà presuppone che si sia liberi di aderire o meno a una proposta di qualsiasi genere, in tutti i campi. Ma la proposta ci deve essere! Ciò vuol dire che il formatore deve sapere dove condurre il formando e non il contrario. Una delle difficoltà che più spesso incontriamo è proprio il fatto che i ragazzi, dai 6 mesi ai 18 anni, non sono abituati a ricevere delle proposte chiare e definite tra cui decidere di accettare o meno. Ma, lo ripetiamo: la proposta va fatta.
Un’altra breve sottolineatura: il concetto sbagliato per cui niente debba essere imposto. Ora, è vero che la libertà deve essere rispettata ma la libertà va educata e l’educazione passa anche attraverso delle imposizioni, sempre nell’ottica che è il formatore che sa dove portare il formando. Prendiamo, per esempio, la questione dell’abbigliamento. A volte si ha paura, si avverte come l’imbarazzo ad intervenire quando gli studenti arrivano con un abbigliamento non adeguato non solo alla scuola ma alla vita! Se, però, come educatore io so che un certo tipo di abbigliamento non va bene, perché devo cedere, devo rassegnarmi in nome di un falso concetto di libertà? Ovviamente non si tratta solo di imporre: io ti dico cosa fare e perché voglio che tu studente ti debba comportare così! È un’imposizione mediata dalla spiegazione, dalla motivazione del PERCHÉ. In questo sta quell’autorevolezza nell’esercizio dell’autorità che nel campo educativo è necessaria. L’educazione presuppone l’autorità (altra cosa dall’autoritarismo). In un certo senso occorre che l’insegnante stesso sia disponibile al ruolo educativo cui è chiamato.
In conclusione: se siamo convinti del nostro essere educatori e siamo convinti dei valori antropologici che il Cristianesimo porta con sé, se siamo convinti che la fede dona alla vita la sua pienezza, se vogliamo, per citare Manzoni, che la terra a Lui ritorni, dobbiamo creare nei nostri giovani un’attitudine al pensiero attivo, alla percezione di un anelito che faccia comprendere la bellezza di tutto ciò che non è finito.
Ho citato il magistero del cardinale Scola a Milano. Non posso, però, non citare il cardinale Martini, in particolare la lettera pastorale intitolata Dio educa il suo popolo. Correva l’anno 1987. Ne cito un passo:
Dio ha un progetto sull’uomo e tale disegno chiama in causa, oltre alla sua, la libertà dell’uomo. Perciò, se noi pensassimo al progetto trascurando il fattore libertà, ci esporremmo al rischio dell’astrattezza; se pensassimo alla libertà dimenticando il progetto, finiremmo nell’inconcludenza. L’arte di educare è propria di chi sa far convivere progetto e libertà. A questo è chiamata la Chiesa educatrice.
È in questa libertà che si gioca il rapporto tra fede e società, o meglio si gioca il tentativo di far sì che la fede sia in grado, attraverso i credenti, di far sentire la propria palpitante presenza tra gli uomini e le donne del nostro tempo.