“L’Ucraina deve vincere – dichiara l’Economist – ne va del futuro dell’Europa”. La cosa è sempre più che evidente. Ma la strada per arrivarci rimane tortuosa.
Nel suo testamento, Richelieu insisteva sull’opportunità di negoziare incessantemente… persino laddove non si ottengano risultati immediati, ancor più dove non ne traspaia alcuna prospettiva di successo.
Il popolo ucraino ha dimostrato di essere europeo, per Storia, per mentalità. Il suo Presidente, dagli accenti churchilliani, autentico, perfettamente sincronizzato al mondo comunicativo contemporaneo, si contrappone platealmente ad un avversario ancorato ad anacronistici, autodistruttivi, riflessi condizionati. Comunque vadano le cose sul terreno, è alla diplomazia, non alle armi, che rimane affidato l’arduo compito di tentare ancora una volta di estrarre la Russia dalle sue antiche ossessioni, reintegrandola in Europa.
Un compito nel quale, cinquant’anni fa, si era impegnata con successo: con l’Atto Finale di Helsinki, al quale va ascritta la caduta del Muro. Un muro che Putin, rinnegando Gorbaciov, ha nuovamente eretto fra sé e il resto del continente, al quale dichiara e dimostra non voler appartenere. Estraniandosi persino dall’ordinamento internazionale che, quale membro permanente del Consiglio di Sicurezza, paralizza invece di farvi valere lo status di ‘superpotenza’ che pretende invano dagli Stati Uniti, impossibilitati ormai a conferirglielo.
Gli incontri negoziali, bilaterali o multilaterali, svoltisi finora altro non sono stati che la dimostrazione della disponibilità ucraina contrapposta alla cortina fumogena russa. Palesemente, ogni risultato dovrà essere promosso, accudito e garantito da un più ampio concorso internazionale. Come avvenne originariamente con l’accordo di Budapest che accompagnò la denuclearizzazione volontaria dell’Ucraina, e poi con gli accordi di Minsk a seguito dell’occupazione russa del Donbass e l’annessione della Crimea. Impegni che la Russia ha platealmente stracciato.
In proposito, va osservato che i passati tentativi di sistemazione del contenzioso fra Mosca e Kiev furono dovuti all’impegno non già dell’America, bensì di Francia e Germania, per conto di un’Unione europea che si riaffacciava in tal modo al proscenio internazionale. Un’Unione però che, accordando a Kiev lo status di ‘associato’, aveva provocato l’irata reazione russa, innescando la crisi ucraina. Ma che insiste oggi, riproponendosi come ‘deus ex machina’, nel riconoscere a Kiev lo status di ‘stato candidato’ all’adesione.
L’ipotesi di un ruolo determinante dell’Unione nella reintegrazione del continente, per quanto palesemente necessario, rimane pertanto inviso ad un Cremlino dimostratosi preoccupato dalla contaminazione dei valori europei, piuttosto che da una minaccia militare della NATO presa a pretesto della sua aggressione alla nazione che, dichiarata consanguinea, va massacrando.
Il rischio reale che Mosca avverte è piuttosto quello, atavico, di rimanere compressa fra il polo d’attrazione europeo e l’emersione della potenza strategica cinese. Un dilemma dal quale Mosca può estrarsi soltanto con le proprie forze, dimostrando nei fatti di poter tornare ad essere una potenza influente nei grandi spazi aperti dalla globalizzazione.
A dura prova è quindi messa la diplomazia, arte del compromesso, che non può prescindere dall’attivo concorso delle parti interessate. Nell’immediato dopoguerra, Dean Acheson, Segretario di Stato americano, osservava che “la diplomazia sovietica non esiste… con i sovietici il negoziato non ha senso, né scopo… L’unico modo di farli cambiare intenzione è di convincerli dell’assenza di risultati positivi”. Si direbbe che, al Cremlino, l’umore non sia cambiato.
In Ucraina, per quanto esautorata, la diplomazia rimane comunque a disposizione, nell’attesa che si dissipi la pretesa di una resa senza condizioni, di una ‘debellatio’, lasciando emergere la volontà di conseguire un risultato condiviso, pur non pienamente soddisfacente per entrambi; che si apra lo spazio indispensabile di un cessate-il-fuoco e di passi indietro sul terreno; e, soprattutto, che si trovi il bandolo della matassa, che la mancanza di una precisa definizione degli scopi di guerra russi ha impedito di identificare.
Un’impresa di Sisifo, alla quale però soltanto la diplomazia, dietro le quinte di un’immane tragedia, può dedicarsi.