Gli ultimi eventi attorno all’Ucraina hanno dimostrato quanto l’Europa fatichi ad imporsi come interlocutore, persino nelle questioni che riguardano il proprio vicinato. Il fatto è che la ‘prospettiva europea’, la forza di attrazione dell’Unione, deve vedersela con la contrarietà della Russia di Putin (oltre che con la concorrenza della Cina di Xi), in un mondo nel quale la sua ‘forza gentile’ (soft) appare inadeguata ad affermarne l’incisività.
Assente ormai la Merkel, che con Putin condivideva la comune anche se diversa esperienza in Germania orientale, Macron si è fatto avanti, avvalendosi della sua funzione di Presidente di turno dell’Unione. Impegnatosi in un colloquio assurdamente (offensivamente?) lungo per durata oltre che per le dimensioni del tavolo, non ha portato a casa che la ribadita generica intenzione di riprendere il negoziato nel gruppo quadrilaterale, detto ‘di Minsk’, arenato da anni. Non proprio una svolta nell’intrico ucraino che il capo del Cremlino ha dimostrato di voler mantenere come spada di Damocle sulla testa degli europei.
Già nel 2008, spettò ancora alla Francia, con Sarkozy, nella medesima funzione di presidenza dell’UE, ad intervenire quale mediatore in occasione dell’intervento russo in Georgia. “Non è lui il capo della NATO”, hanno precisato questa volta a Mosca per ridimensionare la rilevanza dell’incontro con Macron, confermando l’indisponibilità del Cremlino a prendere in considerazione l’Unione europea come partner negoziale. Trascurando, il che è ancor più significativo, anche la parità di status di Russia e Francia quali Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
La Brexit non ha necessariamente privato l’Europa dell’altro suo esponente nell’organo esecutivo dell’ONU. Ma non può essere compensato da una Germania che, appesantita dal suo passato in quella regione, rimane riluttante ad esporsi assertivamente. Ingeneroso è accusare la Germania di dimostrarsi non particolarmente ferma nei confronti di Mosca, né generoso nelle forniture militari a Kiev. Berlino continua a fidare nel coinvolgimento di Mosca (anche in termini di nuovo gasdotto). Concedendo la preminenza al Presidente francese, è tuttavia dalla sponda di Washington che il nuovo Cancelliere tedesco ha preferito prendere le mosse per affermare le proprie credenziali.
In materia di ‘politica estera comune’, l’Europa ha dimostrato ancora una volta di non potersi muovere che a ‘geometrie variabili’, nella complementarietà delle iniziative concrete dei suoi membri. Il problema di fondo non è, come si continua a dire, l’inanità dell’Unione europea, bensì la mancata rispondenza di chi, a Mosca (a Pechino?), non intende prendere in considerazione una unione di Stati che continua a rappresentare il prototipo di auspicabili migliori rapporti internazionali, collaborativi invece che ancora e sempre antagonistici.
Paradossalmente, per quanto costretta ai margini delle prove di forza fra i ‘grandi’ di questo mondo, l’Europa continuerà quindi a proporsi come cartina di tornasole della loro consistenza ed affidabilità. In quella ‘bussola’ che il suo Rappresentante per la politica estera Borrell si appresta a pubblicare, per indicare il senso di direzione dell’Unione piuttosto che la ‘autonomia strategica’ invocata dall’attivismo del Presidente francese.
Fra l’iperattivismo della Francia e la prudenza della Germania, l’Italia fatica a trovare la collocazione che sarebbe necessaria non soltanto a tutela degli interessi nazionali, ma anche all’affermazione dell’assetto politico dell’Unione su una scena internazionale alquanto disordinata.
Non si può peraltro pretendere da Bruxelles quel che Bruxelles non può dare: farsi cioè potenza, militare, piuttosto che potere, politico. È piuttosto da una maggior visibilità, quale modello multilaterale residuo rispetto al persistente istinto bipolare, che potrà scaturire la necessaria credibilità e maggior incisività dell’Unione sulla scena internazionale.