Vi sono stati, nel percorso della nostra nazione eternamente adolescente, dei momenti di svolta in cui il compito di far emergere la nostra identità fu affidato alla diplomazia.
Alla fonte battesimale, con Cavour; con Visconti Venosta quando venne il momento di collocarci internazionalmente; nell’immediato disastrato dopoguerra, infine, quando gli Ambasciatori Tarchiani a Washington, Quaroni a Mosca poi a Parigi, Carandini a Londra, e Brosio prima a Mosca poi a Londra, fornirono a De Gasperi gli argomenti per tener testa al PCI e a quanti avrebbero optato piuttosto per l’ennesima prudente neutralità, inserendoci invece fra i padri fondatori dell’alleanza atlantica e dell’integrazione europea.
Non deve quindi sorprendere che fra i nomi emersi per l’elezione al Colle siano comparsi anche quelli di due diplomatici. Ambedue già Segretari Generali della Farnesina, assurti poi ambedue al vertice dei ‘servizi segreti’. Mai titolari di una Rappresentanza all’estero, si sono invece ambedue dedicati piuttosto alla gestione della macchina ministeriale e al collegamento fra le varie amministrazioni nazionali, indispensabile per assicurarne la coerenza nella proiezione della funzionalità e della credibilità dello Stato.
‘Tecnici’ dunque anche i diplomatici: necessari per indicare le aspettative che provengono dal mondo esterno, dal quale da sempre tanto dipendiamo, ma che all’interno, a differenza di un Capo del Governo che in questo momento detiene i fondi europei messi a nostra disposizione, non dispongono dell’autorevolezza necessaria per rimediare alla frammentazione politica, che possono semmai sollecitare, non sostituirvisi.
Se, con l’obbligata conferma del Presidente della Repubblica uscente, il mantenimento dello ‘status quo’ può considerarsi in qualche modo rassicurante, è però ‘a bocce ferme’ che la politica nazionale rischia di continuare a presentarsi sulla scena internazionale. Nel perenne clima pre-elettorale della cosiddetta ‘seconda Repubblica’, con il crollo dei partiti tradizionali travolti dall’ondata populista e il venir meno del rigore dei nostri termini di riferimento esterni, la ‘audience’ popolare rischia di continuare a far premio su ogni approfondita considerazione dell’interesse nazionale di più lungo periodo.
Le arti diplomatiche si riveleranno pertanto di nuovo più che mai indispensabili per tentare di rivelare una qualche migliore visibilità di una nazione tuttora scarsamente decifrabile. Proprio nel momento in cui si vanno ridefinendo i rapporti internazionali dai quali il nostro destino dipende, e che altri, senza di noi, vanno invece affrontando.
Una diplomazia che dovrà continuare a spiegare ai suoi interlocutori esterni chi siamo, che un’Italia profonda esiste, anche se fatica ad emergere. Ben altro che pensare a sostituirci alla Merkel o prenderci per mano con Macron.