Può sembrare sorprendente che, nell’attuale stato dei rapporti internazionali, Biden abbia deciso di convocare un “Vertice per la democrazia”. Un impegno che aveva preso nella sua campagna elettorale; una componente essenziale, reiterata, della proiezione americana all’estero: dai tempi di Wilson con il suo “world free for democracy”, alle ‘”quattro libertà” di Roosevelt, alla “Community of Democracies” della Albright vent’anni fa, alla “freedom agenda” di Bush figlio.
Vi è oggi chi paventa l’avvento di un’era ‘post-democratica’, travolta da populismo, sovranismo, neo-liberismo. La democrazia, andrebbe però ricordato, non è un modello prestabilito, uniforme, adattabile invece alle specifiche circostanze geografiche o storiche nazionali. Che deve consistere, diceva Tocqueville, non nella dittatura della maggioranza, bensì nella partecipazione, nel coinvolgimento, delle minoranze.
L’iniziativa di Biden non va comunque considerata come rivolta a tracciare un confronto ideologico, quanto a riaffermare le ragioni del ‘buon governo’, nazionale (nella difesa dello stato di diritto, la tutela dei diritti umani, la lotta alla corruzione) e internazionale (nel rispetto di norme condivise). Più che di contrapporre un più esteso ‘mondo libero’ al diffondersi di riflessi autoritari e rigurgiti nazionalisti, è di governabilità che si tratta, di rimettere in sesto un sistema internazionale lacerato da tanti Stati ‘falliti’ che hanno moltiplicato le discriminazioni e pulizie etniche, innescando i tanto contestati ‘interventi umanitari’.
Donde il coinvolgimento, fra i centodieci invitati, di trentuno che la ‘Freedom House’ considera soltanto ‘parzialmente liberi’. Indicativa l’esclusione di tutti gli Stati arabi (con la sola, interessante, eccezione dell’Irak); significativa quella della ‘democrazia illiberale’ proclamata dall’Ungheria, membro dell’Unione europea, e della Turchia, poco affidabile membro della NATO; meno comprensibile invece, anche tatticamente, quella di Singapore, Vietnam, Tailandia, Sri Lanka. Un segnale per la ‘democrazia popolare’ della Cina va considerato invece l’inclusione di Taiwan, e della Mongolia, oltre a quella di tutte le minuscole isole della Polinesia nel Pacifico; esortativa, infine, quelle di Brasile e Argentina, dell’India, del Pakistan, di un terzo dei paesi dell’Africa, dall’Angola al Congo.
I commentatori americani descrivono l’iniziativa come ‘aspirational’, tendente cioè a stabilire il ‘principio organizzativo’ di un’agenda internazionale da ricostituire. Una chiamata a raccolta ad opera di chi, in mancanza di alternative, ritiene di doversi presentare tuttora come ‘leader’ dello schieramento occidentale. Uno schieramento da proporre quale fattore di aggregazione, per aggirare l’antico principio dell’equilibrio di potenza, al quale esausto, a differenza di altri, non intende più ricorrere. Tutto da dimostrare è che sia pertanto, secondo l’antica profezia spengleriana, destinato a soccombere,
La “Agenda comune” stilata lo scorso settembre dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, nella generale indifferenza, indica le seguenti sopravvenute esigenze fondamentali della comunità dei popoli: salute, incolumità personale, risorse idriche e alimentari, educazione, lavoro e abitazione decenti. Un impegno che esigerebbe quella convergenza d’intenti che tarda a manifestarsi, mentre alla contrapposizione ideologica della Guerra fredda si è infatti sostituito l’antico confronto fra sovranità assolute. Nella conferma di quel ‘conflitto di civiltà’ che Huntington aveva descritto, che la stessa globalizzazione dovrebbe aver liquidato, ma che Mosca e Pechino vanno oggi orgogliosamente inalberando.
“Affinché la Russia sia presa sul serio, è bene mantenere la tensione il più a lungo possibile”, ha detto Putin. Per il quale importante è stato che il colloquio con Biden si sia svolto, ricollocando la Russia nell’agenda internazionale dalla quale rischiava di essere scalzato dalla Cina (interessante notare anche come, mentre l’americano era circondato dai suoi principali collaboratori di politica estera, il suo interlocutore si sia presentato sovranamente solo). Per Biden, dopo essersi assicurato la solidarietà di Londra, Parigi, Berlino, Roma (il “Quint” della NATO), l’importante è stato piuttosto ricomporre la solidarietà politica, più che la coalizione militare, occidentale.
Cruciale sarà quindi star a vedere ora come il Vecchio e il Nuovo continente, culle della democrazia, sapranno allineare, senza confonderli, i rispettivi atteggiamenti strategici. Nella consapevolezza del fatto, sempre più evidente, che i valori sono diventati interessi. E che i valori democratici dell’Occidente non contraddicono, anzi contengono, quelli di stampo ‘orientale’.
“Se rifiutiamo la democrazia -ha sentenziato Pavel Muratov, Premio Nobel per la pace di quest’anno- accettiamo la guerra”.