Nello spargere venti di guerra, la Russia nei confronti dell’Ucraina si è affiancata alla Cina rispetto a Taiwan, in una partita nella quale l’Occidente euro-americano non appare più disposto a misurarsi. Un atteggiamento che può apparire rinunciatario, ma che denota semmai il diverso modo di confrontarsi alle le sfide del giorno d’oggi.
Le dichiarazioni di questi giorni in provenienza da Mosca, intransigenti nel tono e nell’argomentazione, sorprendono per la loro estemporaneità, prive come sono di riferimenti concreti. Intimidazioni a freddo che denotano quasi un’irritazione da frustrazione, piuttosto che la fermezza di ponderati propositi. Il buon senso direbbe che ‘can che abbaia non morde’. Comunque intimidisce.
Da che pulpito il Cremlino, attingendo all’antico bagaglio della propaganda, ritiene di poter accusare la NATO di intenti aggressivi, dopo aver annesso la Crimea e imposto all’Ucraina la regione separatista del Donbass? Confermando quei timori che avevano indotto le ex Repubbliche sovietiche (e gli Stati satelliti dell’est europeo) a cercare rifugio nell’Alleanza atlantica. La cui impostazione rimane essenzialmente difensiva e dissuasiva, come evidenziato dalla sua misurata reazione agli avvenimenti del 2008 in Georgia e del 2014 in Ucraina. Un’apparente remissività della quale Mosca appare voler continuare ad approfittare.
Il Vietnam, l’Afghanistan, l’Irak, la Libia dovrebbero aver ripetutamente dimostrato che la forza militare non risolve più i conflitti, né può conferire vantaggi duraturi. Che la potenza (militare) non va confusa con il potere (politico), il quale consiste piuttosto nella capacità di aggregare ed influenzare, di fissare un’agenda condivisa. Che gli equilibri di potenza devono ormai cedere il passo alla competizione, sulla base di regole necessariamente condivise. Una consapevolezza che tarda a radicarsi, ma nella quale l’Occidente ormai confida, ritraendosi dai confronti militari, persino dagli interventi a scopi dichiaratamente ‘umanitari’.
Eppure, c’è stato un momento in cui, proprio in Europa, le regole del gioco sembravano essere cambiate. L’annuale sessione ministeriale dell’OSCE appena svoltasi a Stoccolma, completamente trascurata dagli organi di informazione, avrebbe potuto riportare alla nostra memoria la cerniera degli Anni Settanta. Resasi conto, a Praga nel 1969, di non poter continuare a sostenere la ‘sovranità limitata’ dei suoi satelliti, fu proprio Mosca a chiedere la convocazione di una conferenza sulla sicurezza e cooperazione paneuropea.
Superando le riluttanze di Kissinger, Brandt fece il primo passo concludendo gli accordi con la Polonia e la Germania dell’Est che misero una pietra sopra alle conseguenze territoriali della guerra. L’Atto finale di Helsinki impostò un sistema paneuropeo, al quale Gorbaciov poi si riferì per andare oltre, coinvolgendo la Russia nell’edificazione di quello che lui stesso definì la “casa comune europea”. Un impegno al quale Putin ha voltato le spalle.
Sintomatico è pertanto che l’incontro fra Lavrov e Blinken, preparatorio della presa di contatto di domani ‘in videoconferenza’ fra Biden e Putin, sia avvenuto proprio ai margini dell’annuale vertice dell’OSCE. Qualche giorno prima, a Mosca, varie fonti al massimo livello avevano invocato una ‘nuova architettura di sicurezza europea’. Una incastellatura, proposta altre volte dalla caduta del Muro, che auspica giuridicamente vincolante. Un ritorno alle origini? E’ infatti semmai proprio nell’ambito dell’OSCE che Mosca dovrebbe adoperarsi per contribuire alla reintegrazione continentale. Resuscitare la ‘dottrina Brezhnev’ in Ucraina, sia pure sotto differenti spoglie, non può comunque certo servirgli per recuperare la sua antica ‘zona d’influenza privilegiata’.
Per ora, gli organi d’informazione russi si sono sommessamente lamentati che, a Stoccolma, “vi è stato una chiara reiterazione delle posizioni USA e NATO, mentre le proposte non-euroatlantiche non sono state nemmeno prese in considerazione”. Al che Blinken si è limitato ad osservare che “ciò che importa è che la Russia capisca che le azioni hanno conseguenze … e che la relazione bilaterale deve diventare stabile e prevedibile”.
E’ come se Putin si stia finalmente rendendo conto di dover uscire dall’angolo in cui è finito. Privo di alleati, partner o simpatizzanti, i suoi ex-satelliti occidentali si rivolgono all’Europa e quelli centroasiatici alla Cina; il cordone ombelicale del gasdotto ‘North Stream 2’ può diventare un’arma a doppio taglio; ed è soprattutto la Cina a trarre vantaggio dalla sbandierata unità di intenti e delle manovre militari congiunte. In buona sostanza, le possibilità di ‘reset’ dei rapporti con la Russia continuano a dipendere dalla sua disponibilità a collaborare nella costruzione di rapporti paneuropei collaborativi, invece che antagonisti.
Nel frattempo, Mosca però sa che, specie in Occidente, la parola ne uccide più che la spada, che le tossine del passato sono ancora in circolo (vedasi in proposito il supplemento domenicale del Corriere della Sera), che la propaganda può quindi far più vittime dei carri armati. Fintanto che le nostre opinioni pubbliche non si risveglieranno dal loro lungo sonno.
Per l’ennesima volta, l’appuntamento annuale dell’OSCE si è concluso senza un comunicato finale e con l’approvazione di due sole risoluzioni, sulla Transnistria (enclave nel Caucaso, da cercare sulla carta geografica) e sul clima. Pur confermando lo stallo di quell’organizzazione, la sessione ministeriale ha però fornito se non altro l’occasione per la Russia di rendersi conto delle preoccupazioni ed aspettative di tutti gli altri ‘Stati partecipanti’, dalla Polonia fino al Tagikistan, per lo stato precario dei rapporti intercontinentali.
Alla presidenza dell’OSCE, dopo la Svezia, non membro della NATO, succederà ora la Polonia, che con la Bielorussia e la Russia ha alcune questioni in sospeso.