Non di sola Russia, Cina e America è oggi fatta la politica estera. Ad agitare le acque ci pensano anche i sovranisti in Polonia, Ungheria, Austria; oltre a quelli di casa nostra. Lasciando gli Stati Uniti allo scoperto, nel continuare ad assumersi responsabilità internazionali che altri dovrebbero condividere.
Dall’alto dei suoi novantotto anni, in una lunga intervista all’Economist, la voce cavernosa di Kissinger, moderna pizia, si è fatta nuovamente sentire. Nel lamentare l’evanescente concetto di ‘leadership’, ha deplorato che il moltiplicarsi di mosse tattiche non lasci oggi trasparire alcuna ‘grande strategia’. Che possa se non altro – ha detto – evitare che l’Intelligenza artificiale finisca con l’incidere in modo incontrollabile sugli equilibri di potenza.
Poco o nulla, c’era da scommetterlo, ha detto dell’Europa: solo un accenno al ruolo fondamentale che la Germania deve decidersi a riprendere. Della Cina, che come pochi altri conosce, ha espresso l’avviso che il suo tentativo di egemonizzare gli affari internazionali va contenuto, non antagonizzato con il rischio che la situazione vada fuori controllo. Della Russia, suo antico cruccio, ha sottolineato che continua invece a rifuggire da un approfondito confronto di ordine strategico, minacciando non l’Occidente quanto i suoi immediati vicini. Dovendosi pertanto affrontarla man mano sugli specifici casi critici, per farla uscire dalla sua perdurante ‘sindrome di vulnerabilità’.
Nell’insieme, ha insistito, bisognerà preservare quello ‘spazio di ambiguità’ che consenta alla situazione internazionale di assestarsi. Tenendo presente che ogni dialogo richiede comunque delle ‘percezioni condivise a più lunga scadenza’, nella valorizzazione degli ‘esistenti interessi paralleli piuttosto che dei principi difformi’.
Per l’Occidente, ma questo non l’ha detto esplicitamente, si tratta in sostanza di trovare la cosiddetta quadra fra lo scontro di civiltà e il rassegnato, indifferente, laissez-faire. Per ridurre le distanze con coloro che ritengono di poter trarre vantaggio dall’attuale stato di disordine del sistema internazionale. Il che non potrà avvenire se non restituendo al tanto denigrato Consiglio di Sicurezza dell’ONU la sua funzionalità di motore del sistema internazionale.
Ottant’anni fa, i padri fondatori dell’ONU dissero di aver fatto “un tentativo di armonizzare potere e responsabilità, nella consapevolezza che certi stati, a causa della loro immensa forza, devono necessariamente assumersi la prevalente responsabilità per l’imposizione della sicurezza; mentre, nell’ambito di obblighi e principi guida comuni, i vari stati membri, grandi e piccoli, devono assumersi le responsabilità che sono meglio adatti a svolgere nell’assolvimento della causa comune”.
Non diversamente, alla fine del confronto bipolare, si pronunciò Paul Nitze, navigato negoziatore americano: “bisogna perseguire il compromesso e la protezione della diversità nell’ambito di sistemi normativi di portata generale; con Organizzazioni internazionali che forniscano stabilità nel movimento, e sforzi collaborativi fra i vari gruppi di nazioni sovrane che affrontino costruttivamente i problemi comuni”.
Affermazioni che, ora come allora, indicano come non vi sia un ‘piano B’. Come la globalizzazione imponga il ritorno alla casella di partenza dell’ONU.
È al G20, il cui vertice avverrà quest’anno a fine mese a Roma, che dovrebbe continuare a spettare il compito di rimettere in moto una vettura che la Guerra fredda ha per troppo tempo lasciato arrugginire in garage.