Muri e porte sfondate, quando il diritto lascia posto al potere del fatto

di 12 Ottobre 2021

Se in un pomeriggio di sabato Roma torna ad essere il terreno di scontri per le strade e la sede del primo sindacato dei lavoratori italiano viene assaltata, il problema non è il green-passe si deve provare a guardare più a fondo. 

Se i ministri dell’Interno di dodici Paesi europei, il giorno prima, indirizzano una lettera alla Commissione e alla presidenza di turno del Consiglio chiedendo di finanziare la costruzione di muri e recinzioni alle frontiere per confinare fuori dei confini europei chi cerca libertà e sicurezza, non si può che cercare di evitare la trappola mediatica e cercare di capire. 

Nella società aperta, nello schema per il quale lo spazio sociale è costruito dalla discussione razionale mediata dal diritto, dal confronto tra diritti ed autorità, il linguaggio della società nei confronti del potere non è la violenza. Ed il linguaggio dell’autorità nei confronti della società non è la violenza. Ma il potere, se si esprime in modi diversi dal confronto razionale con i diritti, dal rispetto della loro dimensione incomprimibile e dal bilanciamento di ciò che incomprimibile non è, è esso stesso violenza. 

In questi anni di emergenza, ma più ancora nei decenni che li hanno preceduti, la forma di espressione del potere è divenuta sempre più securitaria, sempre più l’affermazione del potere come fatto.

Il potere si esprime in termini di protezione, emergenza e comando: l’emergenza si declina in fattispecie diverse – i migranti, gli stranieri, il terrorismo, la violenza negli stadi, la pandemia – ed il comando si presenta in termini di protezione, di tutela dell’ordine, della salute, della sicurezza – tutti, rigorosamente, aggettivati come “pubblici”, non importa quanta compressione dei diritti della persona ne derivi, anche se ben oltre il limite del costituzionalmente tollerabile;  gli strumenti utilizzati sono ben poco rispettosi della teoria delle fonti del diritto che la Costituzione traccia; ma il destinatario del comando è sempre stato un altro, una minoranza. Diverso il caso della pandemia, perché il volto securitario del potere confronta la paura collettiva ed attiva la protezione della società con la dinamica pura del comando emergenziale – anch’esso con contenuti difficilmente compatibili con la protezione minima dei diritti ed il rispetto delle fonti del diritto. 

L’espressione del potere, quindi, non è più il razionale bilanciamento tra diritti delle persone. È un fatto. Un fatto che riguarda i corpi, perché li confina al di là di un muro, perché li scheda, vaccina, controlla, amministra, sempre evocando una necessità superiore al diritto: emergenziale, necessaria; protegge dalla paura, amministra la sicurezza, l’ordine, la salute – tutti e sempre pubblici. 


Il diritto e la razionalità del confronto cedono a beneficio del comando. Poco conta se si possa essere d’accordo o meno sulla singola misura, se ci si senta lesi nei propri diritti dai droni che volano sulle nostre case per controllare l’obbedienza al comando del confinamento, se si consideri corretta o meno la misurazione dei percorsi, la registrazione della voce per identificare la tosse pericolosa, il tracciamento o il green-pass; il potere amministra protezione, sicurezza e salute pubblica con misure di fatto, che entrano nei corpi e non lasciano spazio al confronto razionale del diritto. Poco conta se ci si senta protetti dal riconoscimento facciale, dall’intercettazione della posta elettronica, dai controlli di polizia; il potere amministra la sicurezza e protegge da terrorismo e immigrazione, paure sociali o economiche, erigendo muri che confinano i corpi, che si pongono come fatto. 

Quel che conta è che il comando dell’autorità si pone come fatto, come necessità senza alternative e poco conta se i diritti della persona siano compressi in modo accettabile o meno e se le fonti costituzionali del diritto siano rispettate – il green-pass, ad esempio, è disciplinato da un atto del Governo, un decreto legge, e la sua applicazione interviene con un controllo parlamentare ex post, l’eventuale legge di conversione, che non potrà mancare perché ormai la misura è consumata dal fatto. 

Si tratta di tecniche di potere che rendono il diritto (e i diritti) marginali, sostanzialmente irrilevanti. Si impone la forza del fatto, del comando, dell’emergenza. E, quindi, naturalmente, si confronta con uno spazio sociale costruito dal comando cui corrisponde la soggezione – o la ribellione. La dialettica è azzerata per ragione del porsi del comando come un fatto, rispetto al quale si può solo affrontare la via della ribellione. 

Il muro pone un confine, rispetto al quale non c’è discorso, non c’è misura: solo dentro o fuori. Si può eccepire che la carta fondamentale dell’Unione afferma che la nostra civiltà giuridica fondata sul valore normativo della persona e sui suoi diritti è assicurata a chiunque e che l’esclusione ne è contraddizione. Ma il discorso sul diritto e sui diritti sono travolti dal fatto, dall’emergenza, dal comando. Si potrà discutere dell’opportunità del green-passsolo nel contesto di un discorso razionale sul diritto e sui diritti; il comando permette solo, anche qui, di essere dentro o fuori. Nella dialettica tra protezione e comando da un lato e soggezione e sicurezza dall’altro, non c’è spazio sociale per la dialettica, non c’è confronto sul diritto, con il diritto, attraverso la persona e suoi diritti.

Chi sfonda le porte della sede di un grande sindacato popolare compie un atto squadrista; ma si sfondano le porte e i muri anche perché il potere è avvertito come violenza alla quale reagire con la violenza. 

Si tratta di tendenze di fondo, strutturali, di lungo periodo. Liquidare la trasformazione del potere e quella del confronto sociale solo con le categorie squadrismo/resistenza democratica non basta più. 

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