“Yankees go home!”

di 20 Luglio 2021

Il grido che, per decenni, ha accomunato quanti deploravano le interferenze americane negli affari del mondo intero, va oggi strozzandosi fra quanti paventano invece le conseguenze del suo ritiro dal Medioriente, dall’Afghanistan.

“Gli americani – diceva Michael Ignatieff – hanno un impero dai tempi di Teddy Roosevelt, ma si ostinano a credere di non averlo”. Dall’America Latina all’Asia, persino in Europa occidentale, se ne sono a lungo deplorate l’arroganza e le nefandezze. Ora che, stanchi e stufi di tanta mal ricompensata esposizione internazionale, abbandonano il loro ultimo impegno militare, ne critichiamo invece l’indifferenza e l’imprevidenza. 

Il fatto è che dovremo cavarcela da soli. Ce l’aveva preannunciato Obama, ce l’ha alquanto brutalmente ripetuto Trump, lo sta dicendo Biden, nel sollecitare gli alleati e partner, europei e asiatici, a darsi da fare. Per colmare il vuoto strategico che ne risulterà.

Dal Vietnam fino all’Irak, sovraesposta in guerre interminabili, l’America si è sempre ritratta, immergendosi ogni volta in autocritiche lancinanti. Che non le hanno impedito di ricominciare, ostinatamente, nel perseguimento di quelle che riteneva buone, seppur sempre criticabili, intenzioni. 

Vi è stato persino un momento, al termine della Guerra fredda, in cui, in nome della comune lotta al terrorismo, Washington, pur continuando a prodigarsi solitariamente, ha potuto contare sul pressoché unanime consenso nell’affrontarne la comune minaccia, Una minaccia derivante dalla disgregazione del sistema internazionale, che viene invece oggi strumentalmente introiettata, imputata al dissenso interno, da chi rifiuta la convergenza di propositi prevista dallo Statuto de Nazioni Unite. 

Formalmente indipendente dal 1919, la ‘Loya Jirga’ (assemblea degli anziani) assicurava una sia pur rudimentale forma di democrazia a quell’antica nazione tribale, devastata dallo scriteriato intervento russo, al cui collasso i soliti americani, per l’ennesima volta, si sono illusi di poter rimediare.

Ricostruire l’antico precario equilibrio fra le varie componenti etniche afghane non sarà facile. Per motivi tanto interni quanto internazionali. Confermatosi ‘tomba degli imperi’, l’Afghanistan, invece di costituire l’ennesima lezione della sopravvenuta inutilità dello strumento militare per affermare una volontà esterna, oltre che per tentare di imporre minimi standard di convivenza civile, rischia di diventare l’ulteriore campo aperto alle molteplici interferenze esterne. Compromettendo la stabilità strategica in quell’affollato crocevia fra Iran, Russia, Cina, Pakistan e India.

Washington potrà eventualmente continuare ad operare ‘da oltre l’orizzonte’. Purché però gli Stati geograficamente contigui e cointeressati convergano nel contenerne le eventuali ripercussioni esterne. Una situazione non dissimile da quelle in Irak, in Libia, in Libano. 

In Afghanistan, come nel Mondo arabo, in Africa come lungo la linea divisoria che continua ad affliggere la stessa Europa, la comunità internazionale continua ad essere sollecitata, non per imporre un’uniforme conformità, bensì per assicurare una maggiore stabilità strategica complessiva. Un compito al quale l’Occidente ha appreso di non poter più provvedere autonomamente.

Lasciare al loro destino le tante persistenti conflittualità interne significa rinunciare all’assioma dell’esistenza di una comunità delle nazioni.

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