Stucchevole sta purtroppo diventando la ripresa del quotidiano stillicidio di notizie sulle tragedie degli immigrati in mare, con i suoi importanti risvolti elettorali. Il rimpallo di responsabilità fra Roma e Bruxelles va avanti da un paio di decenni, senza che se ne veda una via d’uscita.
Ne avevamo già parlato, mi pare, ma repetita juvant, forse. Se non altro per lenire i sensi di colpa dei quali ci ammantiamo persino per le tragedie del mare a ridosso delle coste libiche o tunisine. O per le azioni di repressione che quei nostri vicini compiono con riprovevoli modalità, su richiesta e finanziamenti nostri.
Bisognerebbe decidersi ad affrontare la questione in modo più razionale. Distinguere prima di tutto fra richiedenti asilo, rifugiati e immigrati per motivi economico-sociali. I primi sono disciplinati dalla Convenzione di Dublino vigente dal 1997 che disciplina (nota bene) casi individuali di gravi persecuzioni, non il fenomeno di massa al quale siamo confrontati, come si ha tendenza a fare nel pretendere la collaborazione altrui.
I rifugiati vanno invece considerati ai termini della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951, per le situazioni di emergenza, di catastrofi naturali o belliche, in funzione di un rimpatrio possibilmente auspicato dagli stessi interessati.
L’immigrazione irregolare, sostanzialmente illegale, sviluppatasi in modo esponenziale, è invece quella indotta dall’attrazione (fattore ‘pull’) di società presunte prospere piuttosto che da fattori di rigetto (‘push’) di condizioni sociali insostenibili nei paesi di provenienza.
Come in qualsiasi analogo caso di perdita di un fluido, invece di ostinarci a tentare di ostruirne la fuoruscita, bisognerebbe pertanto affrontarne le cause. Ristabilire in altre parole le regole vigenti quando eravamo noi stessi a partire ‘per terre assai lontane’: legalizzando il flusso mediante accordi preventivi, per occupazioni predeterminate, che ne facilitino l’integrazione o l’eventuale riammissione nei paesi di provenienza.
Tenendo presente che, ora come allora, la collaborazione con le nazioni di origine delle migrazioni è ostacolata da un duplice fattore, per loro positivo: alla valvola di sfogo della pressione demografica interna si aggiungono le rimesse degli emigranti, che rappresentano una consistente componente del bilancio nazionale.
La prima, essenziale, misura da adottare, con l’attiva collaborazione di paesi di origine e di transito, non può che essere la repressione degli intermediari, dei trafficanti di esseri umani ai quali va imputata la ricomparsa, in versione moderna, della tratta degli schiavi.
Il primo anello di una catena da spezzare. Tutto il resto dovrebbe logicamente conseguirne. Ma la logica, purtroppo, non sembra più presiedere al comportamento della comunità internazionale.