In Israele, siamo essenzialmente in presenza di una terza ‘intifada’, l’ennesima ribellione di una popolazione palestinese esasperata dalla perdurante mancanza di prospettive. Della quale l’intransigente Hamas tenta di approfittare, a danno della rivale Autorità palestinese in Cisgiordania, alzando la posta con un diluvio di missili dalla sua enclave di Gaza.
Una situazione aggravata dal triplice vuoto istituzionale di un governo israeliano cronicamente non nel pieno esercizio delle sue funzioni, di un interlocutore palestinese diviso al punto di non riuscire a svolgere elezioni interne, e di una comunità araba circostante palesemente distratta e ininfluente, più che di un’America che dovrà semmai rimediare ai danni arrecati dalle sconsiderate iniziative di Trump.
Da anni il conflitto non si chiama più israelo-arabo bensì israelo-palestinese, a testimonianza di come la comunità internazionale si sia rassegnata allo stallo fra le due parti direttamente interessate, allentando la pressione sul governo israeliano. Una condizione che gli ‘accordi di Abramo’ hanno ulteriormente evidenziato, spostando l’enfasi sul contrasto fra sunniti e sciiti, fra Arabia saudita e Iran. È pertanto l’intero ‘Grande medioriente’, non più la sola questione palestinese, che va assestato.
Una terra abitata da tempo immemorabile da popoli semiti, sostanzialmente nomadici, cananei, nabatei, ebrei, arabi. Che dopo la caduta dell’Impero ottomano, l’intesa Sykes-Picot, la Dichiarazione di Balfour, l’epopea di Lawrence che condusse al trasferimento della tribù hashemita in Irak e in una Giordania creata di sana pianta (abbandonando ai wahabiti la penisola araba con i suoi luoghi santi di Mecca e Medina, ed i suoi giacimenti petroliferi), e l’istituzione di nazioni multietniche in Siria e Libano, hanno tentato invano di risistemare. La cui coabitazione, la Guerra fredda e le rivalità fra gli stessi Stati arabi hanno infine dilaniato.
Le legittime aspirazioni dei cittadini palestinesi, il venti per cento della popolazione israeliana, continuano a scontrarsi con l’assenza di una loro rappresentanza unitaria, le esigenze di sicurezza con l’affermazione di una piena democrazia interna. Con il rischio permanente dell’insorgere di una guerra civile, in collegamento con le popolazioni dei territori occupati e di Gaza.
‘Terra santa”, che Mosè contemplò dalla sommità del Monte Nebo; che racchiude la tomba vuota di Gesù; che vide Maometto librarsi in cielo in sella al suo destriero Buraq. ‘Terra promessa’ per tutti; che non appartiene quindi in esclusiva a nessuno. Una regione che non si è mai stabilizzata, in preda a cronici conflitti. Fino a quelli di ultima generazione, fra Irak e Iran, e poi Kuwait, all’intervento militare americano, alla disgregazione della Siria. Che hanno finito con l’emarginare la questione palestinese. Che suscita però la cupidigia, le intrusioni di troppi, interessati più al possesso di brandelli dell’esistente che a ristabilire l’antica, necessaria, convivenza.
Teheran e Riad si sono attestati su fronti opposti. La Turchia, paese membro della NATO allineato in Siria all’Iran sciita, è apparentemente intenzionato a sottrargli l’influenza sull’Hamas sunnita. Più intricati si riveleranno i tentativi russi di riproporsi come indispensabile attore regionale. Irrilevante infine la Cina, che dovrà barcamenarsi per tutelare un’importante fonte dei suoi rifornimenti petroliferi. Gli occhi di tutti si rivolgono quindi, ancora e sempre, agli Stati Uniti, che della stabilità regionale sono stati a lungo garanti, nell’appoggiare simultaneamente Israele, Egitto e Giordania.
È ormai più che evidente come dall’attuale groviglio non si possa uscire se non con la chiamata a raccolta di un maggior numero di attori. Come, più in generale, le crisi geopolitiche odierne non possano essere risolte transattivamente, fra le sole parti in causa, imponendo invece un più ampio, convergente, concorso della comunità internazionale. La cui esistenza non può essere rinnegata da atteggiamenti relativisti, che si traducono nell’affermazione di un conflitto di civiltà di sapore razzista, se non in pura e semplice indifferenza.
Se in Medioriente, così come in Libia, in Iran, Afghanistan, la situazione appare fuori controllo, lo si deve alla concomitanza di due fattori. L’uno ovviamente endogeno, ma l’altro esogeno. Da un lato, traspare l’incapacità di certi regimi di tener conto delle sopravvenute circostanze globali. Ma, dall’altro, manifesta è l’indisponibilità di due aspiranti superpotenze, Russia e Cina, di concorrere nell’affrontare le cause della generalizzata instabilità.
A chi segue, anche superficialmente, gli avvenimenti internazionali, non può sfuggire quanto i parametri di riferimento e la stessa posta in gioco del sistema dei rapporti fra Stati siano radicalmente mutati, squalificando definitivamente ogni istinto imperialista, benevolo o rapace, del passato.
Russi e cinesi non si dimostrano invece intenzionati a liberarsi dai loro antichi riflessi condizionati. Nel pretendere (da chi poi?) il riconoscimento di uno status di superpotenza del quale già dispongono con il loro seggio permanente in Consiglio di Sicurezza. Uno status che oggi, come nel 1945, implica l’assunzione di responsabilità globali piuttosto che il perseguimento di vantaggi circoscritti nell’ambito delle crisi in corso. All’apparente primario scopo di indebolire il presunto avversario americano.
Ultima arrivata nel consesso dei grandi, privata del cono d’ombra assicuratole per decenni da Washington, la stessa Unione europea si sta finalmente rendendo conto della duplicità del loro comportamento. E dell’inanità del ‘Quartetto’, gruppo ristretto comprendente Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite ed Unione europea, istituito all’epoca delle ‘primavere arabe’ nell’intento di accompagnare la necessaria risistemazione del Medioriente.
Della sua amministrazione, estesa dal Vallo in Britannia all’Eufrate, l’Imperatore Adriano ebbe a dire: “regna ovunque una grande pace: non ci sono più né migrazioni né rivolte né tirannidi”. Un’antica presunzione che fatica ancora a muovere la ruota della Storia.
Chi sono gli attori? Come da articolo : evanescenti. La preoccupazione, ad ogni livello, sembra più quella del presidio della comunicazione ( bella roba!) che quella della sana diplomazia. Neanche un Kissinger si muove all’orizzonte… Nel mentre l’ONU vivacchia.